martedì 25 settembre 2007

FILOSOFIA 1 - Dare la morte in dono

Il tragitto del “donare la morte” (J. Derrida, Donare La Morte[1]) si srotola in tre tappe almeno, ovvero tre letture: quella di Patočka, di Kierkegaard e di Kafka, sottese dal racconto del sacrificio di Isacco nel Genesi che ci conduce, di segreto in segreto, dalla responsabilità, al tremore, alla letteratura, sempre trattenendo in filigrana il rapporto impossibile del padre col figlio, fino alla morte d(on)ata e al perdono accordato.

1. Responsabilità e segreto: Derrida legge Patočka.Partiamo con la lettura di Patočka[2]. Nella sua distinzione tra “responsabilità” e “demonico” si pongono fin da subito i tasselli fondamentali per il percorso derridiano. Il demonico, infatti, porta all’irresponsabilità, perché non vi è ancora un’ingiunzione a rispondere di sé davanti all’altro. Teniamo a mente, poi, che il demonico è connesso col desiderio sessuale, scompaginando il limite tra uomo e animale. La religione, al contrario, è responsabilità sottratta al segreto del mistero demonico. È già chiaro che per Patočka la storia della responsabilità si confonde con una storia della religione.
In questa storia il divenir-resposanbile, ossia il divenir-storico, si lega infine all’evento cristiano di un segreto: il mysterium tremendum che è il tremore dell’uomo nell’esperienza del dono sacrificale. Questo segreto dà il cambio, però, ad un altro segreto: il segreto del mysterium tremendum (3) “rimuove” il platonismo (2), il quale aveva “incorporato” il segreto del mistero orgiastico (1), dal quale Platone aveva già tentato di liberare la filosofia.


Per Patočka la speleologia platonica sarebbe il fondo sotterraneo dei misteri orgiastici: la caverna è la madre terra da cui staccarsi per subordinare l’elemento orgiastico alla responsabilità, ma l’anabasi platonica subordina semplicemente un mistero ad un altro, converte un segreto in un altro. Rivolgere lo sguardo verso il Bene, infatti, è un «nuovo mistero dell’anima», poiché il mistero si fa interiore nella forma di un «dialogo interiore dell’anima». Questa è la prima conversione che rompe e conserva l’elemento mistico, e che salvaguarda ciò che abbandona: è l’economia di un sacrificio.
La storia della responsabilità si lega al rapporto “segreto” tra i misteri e tra le conversioni: va riconosciuto il segreto dell’incorporazione e della rimozione che accade da una conversione all’altra. Col tema della conversione siamo condotti a parlar di lutto, ovvero di «morte data», perché una storia del segreto come storia della responsabilità si lega ad una cultura della morte, cioè della «morte data». I tasselli sono già tutti disposti.
Dare, darsi, donare la morte: possiamo parlarne nel senso in cui «d(on)arsi la morte» significa morire assumendosi la responsabilità della propria morte, sacrificarsi per gli altri, morire per gli altri, accettare la morte data come hanno fatto Socrate, Cristo e lo stesso Patočka (il Socrate dell’Est)? Così, qual è il rapporto tra il «darsi la morte» e il sacrificio?
Nella visione di Patočka l’incorporazione di un mistero da parte di un altro consiste nell’incorpora-zione di un’immortalità nell’altra, e ciò corrisponde ad una transazione tra due negazioni della morte. E, cosa notevole, la transazione è marcata da un’interiorizzazione. Con la conversione platonica si giunge ad un’immortalità individuale, interiore, attraverso una disciplina come esercizio per mantenere il mistero orgiastico sottocontrollo, per asservire un segreto ad un altro. Questa disciplina si chiama «filosofia» o «dialettica», la quale può essere insegnata siccome esercizio che prepara a morire accedendo alla nuova immortalità: melete thanatou, ovvero il prendersi cura della morte, come esercizio della morte.
Nel Fedone, legge Derrida-Patočka, la filosofia è l’anticipazione della morte, la cura da prendere nel morire, ossia la meditazione sul modo migliore di ricevere, dare, darsi la morte. Nel passo del Fedone (80e) si nota un’interiorizzazione soggettivante dell’anima che si ripiega presso di sé.[3] Socrate ricorda l’invisibilità della psyché col gioco di aides, cioè col fatto che l’anima invisibile (aides) se ne va, si separa, alla sua morte verso un luogo invisibile che è l’Ade (aides). Ma questa invisibilità dell’aides – l’«invisibile» e «colui che non vede» – e la separazione sono già figure del segreto.
Derrida afferma che in Platone l’anima non si separa, né si raccoglie in sé, se non nell’esperienza di questa melete tou thanatou, di questa preoccupazione della morte; vigilia della morte che incorpora nella sua disciplina il segreto orgiastico: pertanto la filosofia, accedendo alla responsabilità, resta taumaturgica, infatti, Socrate col suo demone è un “mago”. Questa cura della morte, poi, questa coscienza che guarda in faccia la morte è la «libertà».[4]
In realtà, come l’animale, il filosofo platonico non può guardare in faccia la morte né quindi accedere all’autenticità dell’esistenza legata alla melete thanatou. A ben vedere, allora, abbiamo il mistero demonico che è tenuto in segreto, cioè incorporato, dentro la struttura della libera responsabilità, la quale pretende di superarlo, ma non vi riesce se non mantenendolo asservito. Così il segreto della responsabilità consisterebbe nel mantenere segreto il segreto del demonico, ossia nell’ospitare in sé un nocciolo di irresponsabilità.
La storia, infatti, non cancella ciò che nasconde, bensì mantiene il segreto del suo segreto. Allora il mistero orgiastico rimane sempre all’opera nel platonismo e nel cristianesimo e nella secolarizzazione. Di ciò sarebbe indice il fatto che ogni rivoluzione, persino atea o laica, testimonia il ritorno del sacro sotto forma di entusiasmo, della presenza degli dèi in noi, al punto che ogni entusiasmo rivoluzionario produrrebbe le sue parole d’ordine (Potere, Libertà, Ragione) come riti sacrificali ed effetti di segreto.
L’esercizio della responsabilità pare non lasci altra via che quella del paradosso, dell’eresia e del segreto. Nella responsabilità, nel rispondere all’altro, sancita dal passaggio al mysterium tremendum si ha un’«asimmetria di sguardo». Per cogliere l’asimmetria dobbiamo considerare un dono che non è presente, un dono segreto: un dono, se si fa riconoscere in quanto dono destinato alla riconoscenza, si annulla all’istante. Il cristianesimo considera la vita responsabile come dono di qualcosa di misterioso, perché comprende il bene diversamente da Platone, cioè come bontà dimentica di sé e amore che si rinnega. Tra tale rinnegamento e la rimozione cristiana che trasforma il dono in sacrificio, si profila un’affinità, poiché ciò che si dona nel tremore è la morte, ossia un nuovo modo di darsi la morte.
La genealogia della responsabilità si tesse secondo il doppio filo intrecciato del dono e della morte: la morte data. Il dono che mi fa Dio prendendomi sotto il suo sguardo e restandomi inaccessibile, dono asimmetrico del mysterium tremendum che mi sveglia alla responsabilità d(on)andomi la morte, il segreto della morte, una nuova esperienza della morte.
Per Patočka (1) col platonismo il risveglio alla responsabilità è una conversione dell’esperienza della morte: l’anima si prepara alla morte e si trova pronta a riceverla dandosela, liberandosi dal corpo, dal demonico e dall’orgiastico. Attraverso la morte si accede così alla libertà. (2) Il mysterium tremendum poi inaugura un’altra morte, cioè un altro modo di d(on)arsi la morte. Subentra il dono perché la nuova apprensione della morte, la nuova responsabilità, proviene dal dono ricevuto dall’altro: dal dio che, in quanto trascendente assoluto, mi vede senza che io veda lui. Questa conversione è un evento che dona il dono, trasforma il Bene in Bontà dimentica di sé. Si riceve la bontà, il dono di morire in un certo modo, e la legge.
Esperire la responsabilità a partire dalla legge è uguale ad esperire la propria singolarità e apprendere (e avere apprensione per) la morte, perché nessuno può affrontare al mio posto la morte. La morte mi dona la mia insostituibilità e singolarità, dunque la mia responsabilità. Ecco: soltanto un mortale è responsabile.[5]
Posso donare all’altro qualsiasi cosa, eccetto l’immortalità, eccetto appunto il morire per lui e liberarlo dalla sua morte. Soltanto un mortale può donare e può donare unicamente ad un altro mortale, poiché può donare tutto fuorché l’immortalità.
Il senso della responsabilità si annuncia sempre come una modalità del «darsi la morte»: la mia prima ed ultima responsabilità è la mia morte insostituibile, la responsabilità della responsabilità che mi rapporta a ciò che nessuno può fare al posto mio. A ciascuno tocca prendere la propria morte su di sé, deve assumere la propria morte che è l’unica cosa che nessuno può dare né prendere. Infatti, anche se la morte mi venisse data, cioè mi si uccidesse, nondimeno la morte sarebbe stata del tutto mia. La morte allora è ciò che sospende ogni esperienza del dare-prendere, eppure in suo nome e dopo di essa è possibile dare o prendere.
Ritroviamo l’asimmetria di sguardo nella responsabilità del mortale che non ha più a che fare semplicemente con un Bene oggettivo, ma con una Bontà. Il mortale si trova di fronte alla sproporzione che trasforma la responsabilità in colpevolezza, poiché egli non sarà mai a misura della bontà infinita che dona un dono infinito.

2. Abramo trema, ovvero l’uomo senza tragedia: Derrida legge KierkegaardTremiamo di ciò che non vediamo. Il tremore è un’esperienza del segreto o del mistero, ma c’è di più, un ulteriore sigillo: non si sa perché si trema. Non conosciamo ciò che ci fa tremare né perché ciò di faccia tremare.
Che cosa fa tremare nel mysterium tremendum? Il dono dell’amore infinito, ossia l’asimmetria tra lo sguardo divino che mi vede, e me stesso che non vedo ciò che mi (ri)guarda; la morte data; la sproporzione tra dono infinito e la mia finitezza. Tremiamo dinnanzi al segreto inaccessibile di un dio che decide per noi, sebbene noi siamo responsabili.
Dio è tutt’altro, pertanto non condivide con noi le sue ragioni, è segreto. Questo Dio esige, senza spiegarsi, in segreto, da Abramo il gesto più crudele ed impossibile: offrire in sacrificio suo figlio Isacco, ciò che è insostituibile.
Quando Isacco chiede al padre dove si trovi l’agnello per il sacrificio, Abramo risponde che Dio provvederà procurando l’agnello per l’olocausto. Abramo in questo modo mantiene il segreto impostogli da Dio, ma risponde al figlio. In questo episodio il segreto è doppio: 1) tra Dio e Abramo, 2) tra Abramo e i suoi. Abramo deve mantenere il segreto, e inoltre non può che mantenerlo perché gli è segreto. Secondo Kierkegaard[6], mantenendo il segreto, Abramo tradisce l’etica, ossia il legame coi nostri cari.
Abramo è solo, perché mantiene un segreto che di fatto gli è segreto, è lontano da Dio e allontanato dai suoi: assume su di se la responsabilità della singolarità al momento della decisione. Come nessuno può morire al posto mio, così nessuno al mio posto può prendere una decisione.
Il linguaggio fa perdere la singolarità e la possibilità di decidere, perché la decisione è esclusivamente solitaria e segreta. Nella parola il linguaggio sospende la mia singolarità assoluta, togliendomi libertà e responsabilità. È sancito in questo modo il legame tra responsabilità infinita, silenzio e segreto.
Ciò va contro il senso comune filosofico (e non) perché in genere la responsabilità è legata al pubblico, al non segreto, alla giustificazione davanti gli altri. Qui invece la responsabilità assoluta dei miei atti esige il segreto, il silenzio di fronte agli altri, il non dover rendere conto di nulla agli altri.
Poiché l’etica parla alla “generalità”, invece di assicurare responsabilità, spinge all’irresponsabilità; l’etica parla nel concetto (l’universale), quindi dissolve la propria responsabilità. Perciò Kierkegaard dice che per Abramo l’etica è la tentazione, cui deve resistere. Abramo tacendo resiste, dato che, se si autogiustificasse davanti agli altri, perderebbe la sua segreta e assoluta responsabilità davanti a Dio. Si scontrano pertanto “responsabilità in generale” e “responsabilità assoluta”, la quale non può ammettere alcun concetto di responsabilità.
Abramo rifiuta la legge e la giustizia umane, declina l’autobiografia che è autogiustificazione, egodicea, giacché egli si presenta solo davanti a Dio al quale risponde «eccomi». Per ciò rinuncia a parlare coi suoi e alla fedeltà a loro. Iniziamo a pensare quanto differisca il sacrificio di Isacco dal sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone.
Nel mysterium tremendum bisogna che Abramo ami assolutamente Isacco per dargli la morte, facendo ciò che l’etica definisce odio e omicidio. Abramo non è un eroe tragico, perché questi accede al lutto, mentre Abramo non è un uomo di lutto. Abramo resta un odioso assassino dopo che accetta di dare la morte, perché solo in questo modo egli si assume la responsabilità assoluta davanti al dovere assoluto, prova della fede in Dio. Si apre tutto il paradosso del dovere assoluto che chiede di trasgredire il dovere dell’etica, senza però rinunciare ad appartenervi: Abramo ha il dovere di sacrificare Isacco e l’etica, ma affinché ci sia sacrificio, l’etica deve mantenere valore.
I “concetti” di dovere e responsabilità assoluti si fanno leggere nel paradosso del rapporto con l’altro assoluto, soprannominato “Dio”. Il racconto, più o meno favoloso, del sacrificio di Isacco narra questo paradosso e la moralità della morte d(on)ata. Il dovere assoluto esige che ci si comporti in modo irresponsabile, riconoscendo però ancora il sacrificato, l’etica e la responsabilità umane: l’etica deve essere sacrificata in nome del dovere assoluto, ossia in nome di ciò che è tutt’altro, Dio, segreto, nascosto. Così non c’è esercizio di una siffatta responsabilità assoluta e non c’è sacrificio senza segreto.
La vera questione, il vero dramma (la vera tragedia?) per così dire, è che il «sacrificio di Isacco» illustra l’esperienza più quotidiana e più comune della responsabilità. Il dovere e la responsabilità mi legano all’altro, in quanto altro, sicché non appena entro in rapporto con l’altro assoluto, la mia singolarità si rapporta con la sua nella modalità dell’obbligo e del dovere: sono responsabile davanti all’altro in quanto altro. Non posso rispondere alla richiesta, all’obbligo, all’amore di un altro, senza sacrificargli l’altro altro, gli altri altri, perché ogni altro è tutt’altro. I concetti di alterità e di singolarità sono costitutivi del “concetto” di dovere e di responsabilità.
Posso rispondere alle richieste dell’altro soltanto sacrificando l’etica, ossia ciò che mi obbliga a rispondere nella stessa misura, modo, istante, a tutti gli altri. Succede che do la morte senza neanche levare il coltello su mio figlio in cima al monte Moria, perché in ogni istante costantemente lo faccio su tutti i monti Moria del mondo. Preferendo ciò che faccio, dice Derrida, adesso, forse faccio il mio dovere, ma sacrifico tutti i miei altri obblighi nei confronti degli altri altri, miliardi di altri – simili e non, uomini e animali – che soccombono. Tradisco la fedeltà e gli obblighi nei confronti degli altri cittadini e anche di coloro che amo, poiché ciascuno è sacrificato in questa terra di Moria che è il nostro habitat di tutti i giorni e di ogni secondo.[7]
Abramo è un testimone della fede assoluta, che non testimonia davanti agli uomini, ma testimonia un segreto, in segreto e in silenzio. L’eroe tragico invece parla, condivide e si compiange, non conosce la responsabilità della solitudine: Agamennone si compiange con Clitemnestra e Ifigenia, laddove Abramo non piange né condivide, ma è nel segreto assoluto. Se parlasse, se traducesse, se spiegasse, cederebbe alla tentazione della generalità etica, che conduce all’irresponsabilità. E non sarebbe più quell’Abramo in rapporto singolare con il Dio unico, dunque non donerebbe più niente, perché incapace di amare di odiare.
Derrida suggerisce che in questo sacrificio, racconto di padre e figlio, sia sacrificata anche la donna. Ci sono Dio padre, il padre Abramo e il figlio Isacco, ma di Sara non si dice niente. È come sacrificata, esclusa per paura che ella alteri la logica del sacrificio. Notiamo ancora che invece nel caso dell’eroe tragico e del sacrificio tragico la donna è presente, perchè il suo posto è centrale.
Abramo risponde qualcosa, quando Isacco gli chiede ragione, ma risponde dicendo nulla e non usa metafore, enigmi o ellissi: fa ironia, che è dir qualcosa senza dir nulla, ironia del non-sapere. Egli non ha motivo di ricorrere ad un linguaggio enigmatico perché non sa quel che Dio ha in serbo. Egli nondimeno decide a partire da nessun sapere, con una decisione segreta. Ciò non toglie che la decisione di Abramo sia responsabile, perchè risponde di sé davanti all’altro assoluto, ma è anche irresponsabile perché la decisione non è guidata né dalla ragione, né dall’etica degli uomini. Ebbene tutto accade come se non si possa essere responsabili al contempo davanti all’altro e davanti agli altri. In fondo se Dio è tutt’altro e ogni altro è tutt’altro, allora Dio è ovunque vi sia del tutt’altro.
Ne viene una certa conseguenza, ossia che ciascuno di noi, in quanto “altro” rispetto all’altro, è infinitamente altro nella sua singolarità assoluta e inaccessibile; pertanto quel che si dice di Abramo in rapporto con Dio, si può dire anche del mio rapporto senza rapporto con ogni altro come tutt’altro, con il mio prossimo, con i miei tanto inaccessibili quanto Iahvè.
In questo senso ogni altro, cioè ciascun altro, è tutt’altro, ossia assolutamente altro. E il racconto del sacrificio di Isacco mostra la struttura stessa del quotidiano, ovvero annuncia nel paradosso la responsabilità di ciascun istante per ogni uomo e ogni donna, il nostro rapporto con il dare la morte.
Se l’eroe tragico è grande e ammirato, al contrario Abramo non è considerato un eroe, poi che è rimasto fedele all’amore del tutt’altro. Non è certo ammirato, ma ispira orrore e terrore segreto. Abramo è segre(ga)to, allora, e tagliato fuori dagli uomini e da Dio. Quel che noi tutti condividiamo con Abramo è ciò che non si condivide, ossia un segreto di cui né lui né noi sappiamo alcunché. Condividiamo un mero non-so-che.
Se ciascun uomo è tutt’altro, non si può più distinguere tra una pretesa generalità dell’etica e la fede che si rivolge verso Dio come tutt’altro, distogliendosi dai doveri umani. Diviene difficile discriminare tra etico e religioso, siccome il loro rapporto è tanto problematico, che i concetti generali di responsabilità e di decisione risultano quasi incoerenti e privi di identità, cadendo in antinomia. Nondimeno hanno funzionato attraverso le convezioni. Quel che si trova all’opera ogni giorno nell’esercizio della giustizia, nel diritto, nella condotta politica, è un lessico della responsabilità cui non corrisponde alcun concetto. Ogni tribunale umano condannerebbe Abramo, tuttavia il buon funzionamento della società, la morale politica, l’esercizio del diritto, non sono turbati punto dal fatto che la stessa società, in virtù delle leggi di mercato e delle logiche di sfruttamento, fa morire altri uomini. E non vi è tribunale giuridico competente che giudichi tale sacrificio, come sacrificio dell’altro cui la società “civilizzata” partecipa e che addirittura organizza.
Con ciò si apre un’economia generale del sacrificio. Dio vede nel segreto di Abramo, sa quel che Abramo avrebbe fatto, che avrebbe agito in cambio di nessuna ricompensa, senza calcolo, al di là dell’economia. Allora il sacrificio dell’economia, che apre la responsabilità in quanto la decisione è sempre di là del calcolo, è letteralmente il sacrificio dell’oikonomia, della legge della casa, della famiglia, dell’amore, del proprio. Abramo dà la morte ai suoi, a ciò che ama sopra tutto, dacché ha già deciso; eppure nell’istante di uccidere, Dio gli rende il figlio, gli dona il dono, gli restituisce il sacrificato come una ricompensa.
Abramo rinuncia ad ogni comunicazione con Dio, ad ogni commercio, ad ogni senso, ad ogni proprietà, ad ogni scambio e ricompensa. Però, avendo rinunciato, rischia di guadagnarci perché egli si vede rendere da Dio, nella rinuncia assoluta, ciò che aveva deciso di sacrificare. Gli è stato reso perché non ha calcolato.
Il «diligite inimicos vestros» dell’evangelista Matteo ci dice che per sperare in un compenso infinitamente alto, oltre il dovuto, bisogna donare senza fare i conti e amare coloro che non ci amano. È un calcolo che pretende di portare di là del calcolo. È un’economia che rinuncia all’economia, perché Dio padre, che vede nel segreto, renderà a ciascuno il proprio compenso, infinitamente più grande.
Dio, dice però Derrida, non deve essere pensato come qualcuno lassù, trascendente, in grado di vedere tutto nel più segreto dei luoghi interiori. Bisogna riuscire a liberarsi di quest’idolatria, poiché Dio non è che «il nome della responsabilità per me di mantenere un segreto che è visibile all’interno ma non all’esterno» (p. 137). Ho in me un testimone che gli altri non vedono, altro e intimo, c’è in me un testimone segreto, c’è quello che chiamo Dio, chiamo Dio in me, mi chiamo Dio. Dio è «io» assoluto.
La storia di Dio e del nome di Dio è una storia segreta del segreto, la quale è anche un’economia. Questa economia denuncia un’offerta ancora troppo calcolatrice, che rinuncerebbe ad un compenso terreno solo per capitalizzare un beneficio infinito, incalcolabile, interiore e segreto. Siamo sempre di fronte al rischio di un mercato sublime che tenta di guadagnare il paradiso economicamente. Laddove il dono si lascia sfiorare dal calcolo, dalla riconoscenza, si lascia prendere nella transazione dello scambio, dona cioè una moneta falsa, perché è un dono in cambio di un compenso. Se il dono è legato al compenso, si falsifica, diviene mercenario. Non appena calcola, il dono sopprime l’oggetto del dono. Per evitare ciò bisognerebbe sopprimere l’oggetto in un altro modo, ossia conservare del dono unicamente l’atto e l’intenzione del donare, e non il donato. Bisognerebbe donare senza saperlo, senza conoscenza né riconoscenza: senz’altro senza oggetto.[8]
Il cristianesimo porta con sé l’economia della moralizzazione del debito (economico) in debito morale, portandola all’eccesso fino al sacrificio di Cristo per amore del debitore: l’economia del sacrificio. Dio si offre in sacrificio per pagare i debiti dell’uomo, vale a dire Dio ripaga se stesso di se stesso: il creditore si offre per il suo debitore, per amore del suo debitore. C’è pertanto un legame tra credenza, credito e fede: un credere sospeso tra il credito del creditore e la credenza del credente.

3. L’impossibile lettera al padre, ovvero la letteratura: Derrida legge Kafka.La tesi di Derrida è che senza il segreto assoluto di Abramo non sarebbe mai potuta sorgere ciò che chiamiamo letteratura: c’è una parentela tra il segreto dell’Alleanza elettiva tra Dio e Abramo e il segreto di ciò che chiamiamo letteratura, della e nella letteratura.
Sul monte Moria Dio assegna ad Abramo una prova: dimostrare d’essere capace di mantenere un segreto, «di non voler dire…», confuso col «non poter voler dire…». Dio chiama Abramo e questi risponde «eccomi!». Abramo riceve l’ordine di prendere proprio figlio che ama più d’ogni altra cosa, di andare nel paese di Moria e là di offrirlo in olocausto sulla montagna. Così Abramo si alza presto, cinghia l’asino, prende con sé due servi e suo figlio Isacco, spacca la legna e se ne va verso il luogo che Dio gli ha indicato. Per tutto il viaggio mantiene il silenzio. Giunti, Abramo prepara l’olocausto, lega Isacco ed in silenzio estrae il coltello. Isacco vede ma non parla. Padre e figlio sono separati dallo stesso silenzio, il medesimo segreto: Abramo non ha visto che Isacco ha visto mentre estraeva il coltello col viso contratto dalla disperazione. Ovvero, Abramo non sa di essere stato visto, non sa che suo figlio sarà stato suo testimone, testimone di un segreto che lo lega a Dio.
Abramo si getta a terra e chiede perdono a Dio per avergli obbedito in quell’ordine impossibile. E non dimentichiamo che il Dio di Abramo è un Dio che si ritrae, cioè che ritraendosi può anche ritrattare. Abramo chiede perdono per esser stato disposto al peggior sacrificio in vista del suo dovere verso Dio, chiede perdono per aver ascoltato Dio.[9]
Isacco non è soltanto colui che Abramo ama di più, è anche la «promessa stessa» da sacrificare. Per ciò Abramo chiede perdono, per aver accettato di metter fine all’avvenire, per aver preferito il segreto che lo lega a Dio, al segreto che lo lega all’altro altro, ad ogni altro, per il peccato di aver dimenticato il suo dovere paterno verso il figlio. Eppure non chiede perdono a Isacco. Abramo giudica imperdonabile il suo peccato, sicché non fa che chiedere perdono dell’imperdonabile. Siamo allora nell’aporia di un perdono impossibile.
Una frase del tipo «perdono per non voler dire…» non dice nulla dell’identità del firmatario, del destinatario e del referente, del contesto. Ciò predispone la frase al segreto e quindi al suo divenir letteraria, in quanto affidata allo spazio pubblico, intelligibile, ed in quanto senso, referente, firmatario e destinatario non sono determinabili in pieno. È una frase che mantiene il suo segreto, annunciandolo. La letteratura in Europa, sostiene Derrida, scivola nel solco della Bibbia perché vi attinge il senso del perdono e pure chiede perdono del tradimento. L’essenza di ciò che chiamiamo letteratura, è la tesi di Derrida, ha un’ascendenza più abramica che greca.
Derrida passa alla lettura della Lettera al padre di Kafka: è una lettera che non è né dentro né fuori dalla letteratura. Kafka indirizza fittiziamente a sé la lettera che egli pensa che suo padre avrebbe potuto o voluto mandargli in risposta. Il padre (fittizio) rimprovera al figlio (che se lo rimprovera da solo quindi) il suo parassitismo e di accusare proprio il padre, e così di perdonarlo scagionandolo. Kafka non vede e non comprende il padre, come Isacco non vede avvicinarsi e non comprende Abramo, il quale poi non vede Dio né tanto meno lo può comprendere.
Nel segreto, nel perdono, nella letteratura si legge la filiazione impossibile: Isacco sacrificato dal padre, Amleto che rifiuta il nome di figlio propostogli dal re-patrigno, Kierkegaard che pena per il nome e la paternità di suo padre, Kafka che istruisce il processo di suo padre. La letteratura comincia, dice Derrida, dacché non si sa più chi scriva e firmi il racconto della chiamata, tra il Padre e il Figlio assoluti.
Nella lettera di Kafka la questione è il matrimonio (vale anche per Abramo, per Amleto, per Kierkegaard con Régine): il segreto di prender moglie. È mio dovere, scrive Kafka, sposarmi, per essere forte e rispettabile e normale, nondimeno mi è proibito: devo e non posso. Questa è follia.
Il figlio si parla, in nome del padre: «Con la tua insincerità avresti dunque ottenuto abbastanza, poiché hai dimostrato tre cose: primo, che sei innocente, secondo, che io sono colpevole, e terzo che, per pura generosità, tu sei pronto non soltanto a perdonarmi ma anche, ciò che è di più e di meno, a dimostrare e persino a voler credere che io, pur contro la verità, sono a mia volta innocente»[10]. Se non si può perdonare senza identificazione con il colpevole, non si può neppure perdonare e scagionare insieme, perché non si perdona un innocente. Il perdono è la consacrazione del male che si assolve in quanto imperdonabile, sicché non si può perdonare senza essere colpevoli, al punto che si chiede perdono di perdonare.
Quest’aporia del perdono è causata dal fatto che non si può né chiedere né accordare il perdono senza parlare al posto dell’altro. Nella lettera al figlio della Lettera al padre, il padre (il figlio cioè) accusa il figlio di parassitismo: il figlio è un parassita, ma lo è anche la letteratura perché il figlio ha commesso la colpa di scrivere anziché lavorare. E la letteratura dovrebbe pentirsi di questo peccato di parassitismo, deve chiedere perdono.
La lettera, abbiamo visto, è l’occasione del matrimonio impossibile e del perdono impossibile.
Dio stesso sembra pentirsi e ritrattare dopo il diluvio universale. Chiede segretamente perdono tra sé e sé, pronuncia quindi una benedizione, un’alleanza, una promessa all’uomo, agli altri animali, ad ogni vivente. Dio si impegna a non rifare quel che ha fatto.
Se Dio chiede perdono, a chi lo chiede? Si può chiedere perdono a qualcun altro oltre che a se stessi?
Vi è un segreto segreto nel perdono: perdono di sé a sé, richiesto e accordato tra sé e sé. È un «perdonarsi» annullato in quanto riflessivo, narcisistico. Dopo tutto, «Dio» è l’altro nome del perdono a sé, del perdonarsi.
Dio chiederebbe perdono alla sua creatura come a sé, per la colpa che egli stesso ha commesso creando uomini malvagi nel cuore, ovvero mossi dal desiderio di prender moglie (cfr. Lettera al padre). Il perdono in fondo è una storia di Dio.
L’annientamento del diluvio è esteso a tutte le specie viventi, con l’eccezione di Noè, dei suoi familiari e di una coppia per specie animale. Dio li perdona, eppure limita in tal modo la sua grazia castigando ogni altra vita, sebbene il male l’abbia commesso lui stesso: egli ha commesso l’errore di mettere il desiderio entro gli uomini.
Dobbiamo stare molto attenti: Noè è detto «giusto», al che viene graziato in quanto tale, allora egli è più giusto di Dio stesso. È quasi come se Dio chiedesse perdono a Noè accordandogli l’alleanza. Eppure nella giustizia di Noè Dio grazia anche esemplarmente una vita a venire di ogni specie, ma è difficile stabilire chi accordi questa grazia a chi e in nome di chi. Dio, infatti, castiga e grazia per perdonarsi facendosi perdonare, e accorda la grazia in nome di Noè ad ogni vita. Alla fine Dio, benedicendo Noè e i suoi figli, conferma l’Alleanza e impone il potere dell’uomo su tutti gli esseri viventi.
Dobbiamo pensare ad un «assioma assoluto» che obbliga a supporre un segreto chiesto da Dio, il quale promette l’alleanza. Nella prova che Dio sottopone ad Abramo, interrompendone il sacrificio con la concessione della “grazia”, la fedeltà al segreto non riguarda tanto il “contenuto” di qualcosa da nascondere; piuttosto riguarda la pura singolarità di fronte a Dio. È un segreto privo di contenuto, ove l’unico segreto è la richiesta stessa del segreto, il mantenimento dell’assoluto rapporto esclusivo tra colui che chiama e colui che risponde. Abramo è pronto a sacrificare tutto, non ha più nulla di sacro, per questo la prova che affronta è la desacralizzazione assoluta del mondo.
La letteratura desacralizzando o secolarizzando le Scritture non fa che ripetere il sacrificio di Isacco. Dio dice ad Abramo di non parlare, non perché nessuno sappia, ma affinché non vi siano terzi tra loro. Dio vuole che Abramo si impegni a non confidarsi con nessuno. Pertanto, in realtà, la messa a morte di Isacco è secondaria (cosa ancora più mostruosa) e non è ciò che va nascosto, il contenuto di un segreto. Conta soltanto che Abramo sia risoluto a «non poter voler dire», a mantenere un segreto incondizionatamente, ad entrare con Dio in quest’alleanza singolare. Il segreto da mantenere è senza oggetto fuorché l’alleanza incondizionatamente singolare, l’amore folle tra Dio, Abramo e la sua discendenza (suo figlio, il suo nome).
In che cosa, dunque, la letteratura discende da Abramo, per esserne erede e tradirlo al contempo? La letteratura è il chieder «perdono per non voler dire...», perdono chiesto per la desacralizzazione o secolarizzazione di una rivelazione.
La letteratura è erede di una storia santa di cui il momento abramico resta il segreto essenziale, eppure al contempo rinnega e tradisce tale storia, eredità e filiazione. La letteratura chiede perdono del suo tradimento (doppio, perché le è infedele e la traduce). Chiede perdono per non voler dire niente.
Note
[1] Jacques Derrida, Donner la mort, Editions Galilée, Paris 1999. Ed. it. Donare la morte, Jaka Book, Milano 2002.
[2] Nei Saggi eretici sulla filosofia della storia, in particolare in quello intitolato «La civiltà tecnica è decadente e perché?».
[3] Per questo aspetto vale la pena notare che Derrida e Patočka leggono Platone attraverso la fenomenologia husserliana, dando così, a mio parere, un’interpretazione fuorviante del platonismo: ha poco senso parlare di “interiorizzazione” in Platone, perchè egli non prevede alcuna interiorità, tanto meno assegna alcun privilegio all’interiorità di per sé, perché non c’è né “soggetto” né “coscienza”. E questo alla luce proprio dello statuto che in Platone ha la verità: non va cercata veramente entro di sé, nella vicinanza a sé (lo «scito te ipsum» non significa ciò), bensì entro di sé va trovata la traccia, il segno, il luogo fertile dell’Idea. L’anima ha questo privilegio nei confronti dell’Idea, la Verità, la quale, però, non risiede nell’anima o nell’interiorità. Al pari, non è vero che l’anima si raccolga entro di sé nella meditatio mortis, né che la filosofia sia quest’esercizio alla morte, perché la morte invece non segna altro che la fine dell’individualità e della singolarità. L’individuo e l’interiore, in Platone, invero non hanno alcun privilegio, né politico né epistemologico. La filosofia è meditatio vitae.
[4] Patočka suggerisce che la vita eterna, la responsabilità, la libertà sono il trionfo della vita sulla morte, trionfo che è anche momento giubilatorio del sopravvissuto in lutto che gioisce della sopra-vivenza in maniera maniacale. Si potrebbe pertanto rileggere la trionfante affermazione dell’io libero e responsabile come manifestazione maniacale di un essere mortale e finito.
[5] Secondo Heidegger morire per l’altro non significa morire al suo posto, il vero sacrificio parrebbe impossibile e meno di dire che se il morire rimane il mio morire, allora posso morire per l’altro. Ovvero, posso sacrificarmi per l’altro in una cosa determinata (in einer bestimmten Sache, § 47, p. 294, Essere e tempo), posso così dare la mia vita all’altro, ma con questo non lo salverò, non morirò al posto dell’altro.
[6] In Timore e tremore.
[7] «Non posso rispondere all’uno (o all’Uno), ovvero all’altro, se non sacrificandogli l’altro. Non sono responsabile davanti all’uno (ovvero davanti all’altro) se non venendo meno alle mie responsabilità davanti a tutti gli altri, davanti alla generalità dell’etica o della politica. E non potrò mai giustificare questo sacrificio, dovrò sempre tacere in proposito. Che lo voglia o no, non potrò mai giustificare che preferisco o che sacrifico l’uno (un altro) all’altro» (p. 104).
[8] Per Nietzsche, ad esempio, non c’è altro che un’economia dietro il commercio della morale e della giustizia.
[9] «Non ti chiedo perdono per averti tradito/a, ferito/a, per averti fatto male, per averti mentito, per aver spergiurato, non ti chiedo perdono per una malefatta, al contrario ti chiedo perdono per averti ascoltato/a troppo fedelmente, per troppa fedeltà alla fede giurata, e per averti amato/a, per averti preferito/a, per averti eletto/a o per essermi lasciato eleggere da te, per averti risposto, per averti detto “eccomi” – e dunque per averti sacrificato l’altro, il mio altro altro, il mio altro altro in quanto altra preferenza assoluta, il mio, i miei, il meglio di ciò che è mio, il migliore dei miei, qui Isacco» (p. 153).
[10] F. Kafka, Lettera al padre, in Confessioni e diari, Milano, Mondadori 1972, p. 689.

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