domenica 23 settembre 2007

ROMANZO - 3 volte morte - (parte 1, cap. 1)

PARTE I
Capitolo I
Rax

Nelle passioni umane si risveglia l’animale;
gli uomini non conoscono nulla di più interessante
di questa regressione nel regno dell’imprevedibile.
È come se la ragione li annoiasse troppo.
(Friedrich Nietzsche [Frammenti Postumi])

- Che caldo boia oggi!-
- Miseria ladra…-
- Che c’è?!-
- Che è il 15 giugno.-
- Allora?-
- Allora deve far caldo. C’è da schiattare.-
- Infatti soffoco, io.-
- Perché sei un frignone.-
- Stai buono! Dove vai tu?-
- Guarda che non taglio la corda, tienti il cuore in pace!-
- Figurati, sei già lì pronto a filartela!-
- Ma va’! Leviamoci un po’ di scazzamorto piuttosto, dai!-
- Come? Con ‘sto caldo...-
- Non menar le tue balle fritte, non sei mica un moribondo di novant’anni!-
Si fissano stizziti. Due uomini infilati in calzoni dalle tinte calde, corti appena sopra le ginocchia, e amabilmente avvolti in magliette sottili, muovono qualche passo sotto un viale ombroso della città.
- Fidati.-
- Rax, dove mi porti?-
- Fidati!-
- Non li sopporto i tuoi truschini da rimbecillito!-
- Fidati!-
- Mammalucco pulcioso!-
- A chi? Se ti vuoi disciulare un po’, mi segui, altrimenti impiccati!-
- Ma sì, ma sì, ti vengo dietro. Su, fa il bravo che stasera v’invito a cena, a te e alla tua donna.-
- A me e a Rossana?! Che uscita! Mi sorprendi…-
- Che ingrato! Che pezzo di…-
- Sta bene, sta bene, finiamola lì, però, di minchionarci.-
- Sta bene, allora. Su tutti i fronti.-
- Veniamo da voi…-
- Certo.-
- Non mancheremo.-
Silenzio eloquente.
- Ora, però, treschiamo come facevamo da ragazzini. Hai capito, vero?-
- Cosa! Ancora quella coglioneria, Rax, non è possibile!-
- Dai, poi ti diverti, come l'ultima volta (che risale a dieci anni fa). Forza, alza il culo sudato, cerchiamo la nostra "vittima".-
Così dicendo quello solleva le mani all'altezza della testa, avvicina indice e medio della stessa mano e li fa inchinare a più riprese, le virgolette.
I due, Rax e l'altro, aumentano la velocità dei passi, decisa la direzione, ed escono finalmente dall'ombra verde. Poi più lentamente, senza destar sospetti, indugiano vicino ad alcuni passanti; li scrutano per un attimo e ammiccano, diniego o affermazione.
- Rax, deciditi, sarai mica schizzinoso!-
- Che galletto da niente sei! Nelle scelte non si ha da fare quelli col peperoncino nel didietro, per niente, a noialtri non ci corre dietro nessuno, ne’!-
- Son le tue solite solfe da cisposo…, esageri, sei troppo scassapalle.-
- Non è mica vero: ci vuole un’attenta selezione, dato che ci starò dietro per un bel po’, io. Non mi voglio ricredere e perdere del tempo così, da zulù…-
- Hm…-
Sono due uomini né giovani né vecchi. Quello chiamato Rax è un uomo proporzionato, dai lineamenti fini, non è eccessivamente alto. Occhi scuri, capelli brinati. Lo chiamano Rax perché così è stato abbreviato il suo cognome: Rasconi. L'altro è un altro.
- Rax?-
- Che diamine vuoi?-
- Dimmi un po’ l’ora?-
Rax scopre il polso, la fronte si corruga.
- Le undici.-
- Le undici? È da un’ora che giriamo in tondo come due imbecilli, e… e tu sei ancora lì che cazzeggi e tric e trac! Non mi va, no di certo!-
- Porta un po' di pazienza.-
-Sempre le solite maledette parole; ma se è tutta la vita che sto dietro ad aspettare!-
- Beh, allora minuto più, minuto meno la smania non ti cambia! Rimani sempre lo stesso imbecille…-
L'altro arrabbiato afferra il giornale che porta sottobraccio e l'apre enfaticamente, lo sfoglia, legge a labbra conserte.
- ‘Oggi, sabato 15 giugno verrà inaugurata la mostra del…-
- E piantala lì di fare il sofferto, su, metti via ‘sto giornale. Abbiano da scegliere una bella figliola, che se no schiatto anch’io.-
- ‘…la mostra delle opere d'arte migliori della città, dipinte dai nostri concittadini…’-
- Basta! Sei un bell’idiota! Però, scemo come sei m'hai levato dallo stagno. Possiamo andare alla mostra d'arte, ma sì certo, lì ci son di sicuro delle fregnette d’adocchiare, non è vero?-
L'altro un poco rinfrancato, simulando offesa, ruota velocemente la testa dall'altra parte. Rax, che non è stupido, l'afferra per un braccio e lo trascina amichevolmente lungo il viale verso un incrocio. Avanzano affiancati, a passi regolari mentre lo scalpiccio dei piedi percuote il terreno all'unisono. Entrambi si fermano ad un semaforo e ammirano attoniti l'omino arancione che se ne sta fermo, protetto dalla volta ferrea. Alzano poi lo sguardo impetuoso sull'omino rosso immobile che si è appena acceso e attendono mansueti. Le auto intanto scorrono sbracate ed irriverenti nella calda mattina d'un sabato estivo. Finalmente l'agile omino verde fa la sua comparsa e i pedoni gli sono grati. I due amici camminano affannati, ansiosi di raggiungere sani e salvi l'altra riva.
"Una lingua grigia. E sulla sommità uno spartiacque bianco, dipinto a strisce regolari e dritte come i segni di guerra su un volto pellerossa. Mi tocca, va attraversata ‘sta lurida che si dibatte, tenta d'inghiottirmi, che ignora le disgrazie della sua pittura. Laggiù, poi, pronta a far schiuma, incombe la farragine d’onde multicolori che s’agita per intero e ulula vagiti infernali. Questo pandemonio sale, per così dire, fino a molestare l’etera. E quelli lì in mezzo, serrati nelle loro onde fatte di spuma, umani irriconoscibili, sono tutti quanti dei pisciosi, è ovvio. Lo si capisce immediatamente da come si guardano in giro in cerca di chissà quale meta."
La strada trafficata è di facile valico, così che i due continuano la loro avanzata. S'infilano come un cuneo tra la folla che solletica l’aria, mentre scrutano con impegno i volti della gente.
"Sono intente a muggire, ‘ste canaglie che infestano le strade, carcame a frotte che scorre come sul Lete. Ogni balordo s’affligge per la propria vita che rimarrà ignota, ognuno s’ostina a portare con sé il suo pezzo d’universo, e vicendevolmente si temono, per il fatto semplice che l’uno non è l’altro… viviamo un marasma incontinente, perché nessuno sa contentare la propria intemperanza. Ed io tra loro, adotto le loro usanze fuori di senno, il loro turpiloquio, la loro disarmonia…"
Ad un tratto, come una lucertola, Rax si ferma di botto.
- Fermo lì!-
- Che hai Rax?!-
- Dobbiamo mica arrivare fin alla mostra. L'ho beccata!-
L'amico si guarda le scarpe.
- Che cosa?-
- «Chi!», vorrai dire, microcefalo! La nostra vittima.-
"Questo bipede subumano… i predoni del Sahara hanno fatto razzia delle sue cellule grigie. Ha già la mente altrove, distratto dagli afrori d’un mondo senza scopo. Forse è per il troppo vagare che ci scordiamo di tutto. Ahimè, siamo uomini, però, e grulli, per di più, che dimenticano il motivo della loro permanenza sulla Terra."
- Eh già, la nostra vittima!-
- Non prender tutto alla leggera! Anche i giochi possono essere seri.-
Rax ha un’aria nociva.
Intanto i due si appressano ad una fermata dell'autobus, una di quelle coperte, con le panchine di legno senza schienale, affinché le terga si appoggino al vetro lercio e sozzo di smog e di polvere. Rax e l'altro si sentono appena sollevati alla vista della gente, che sta sotto la tettoia in fuga dal sole.
"Esseri senza fede: abusare così di una misera tettoia plastificata! Compie a punto il proprio dovere, povera tettoia, e l’han mica fatta per nulla. Ma è sempre così, gli altri si prendono tutto il braccio… allo stesso modo quelli là sotto ci stanno a sbafo. Che è, si schifano di un po’ di sole? Nessuno di ‘sti scalmanati aspetta l'autobus. Dei parassiti che temono il sole. Oh, arriverà una giustizia, da qualche parte si sarà pure cacciata!"
Rax decide di cadere nell'ombra ristoratrice della fermata e appoggia le sue spalle nere sul vetro sudicio. La polvere, come ionizzata, si sparpaglia e, in alcuni casi, sembra mutare il proprio naturale volteggio per assediare la maglietta nera di Rax. Questi non vi bada, giacché il suo sguardo e i suoi sensi sono affissi sul viso regolare della bella gioventù d'una ragazza, che sta approfittando dell'ombra e della panca in legno. È seduta con compostezza, le mani afferrano le ginocchia nude, le dita scivolano sulla pelle appena arrossata; il capo incorniciato dai chiari capelli corti è quasi riverso e, a tratti, sfiora il vetro antistante. La polvere fa a gara per accaparrarsi gli interstizi fra i capelli spettinati. Il volto è minuto, quasi pallido, il collo scende regolare e sfuma in una maglietta bianca a V. Le gambe dritte ed aggraziate sono coperte fin sopra le ginocchia da una gonna fiorata, con milioni di pieghe. Rax le sta di fianco e la fissa in modo che ella non se ne accorga, persa nei suoi pensieri, sorda ai rumori della Terra per la distrazione delle cuffie auricolari.
Rax ammicca al suo amico come a dire: questo è ciò che cerchiamo.
"Ragazza mia, goditi l’ombra! La tua gonna sembra un ombrellone chiuso pieno di rughe, che rimane sempre serrato, persino a mezzogiorno col solleone. È il tuo incanto che è il vero incanto: un ombrello che non s’apre mai. Allora ascolta pure la tua musica sbocchevole, non illuderti, però, che il mondo ruoti veramente a quel ritmo. La Terra su cui poggiamo i piedi puzzolenti segue la Musica del Mondo che è un’armonia perduta per sempre, perché è l’intonarsi delle stagioni, è il susseguirsi dei colori, è il sapore spumoso dei marosi, i metronomi della Terra, che scivolano sulle spiagge come le carte sparse d’un mazzo eterno. La Musica del Mondo è confusa per sempre perché i numeri non sanno più cantare e le sillabe sono sulla bocca di ciascuno. Per questo sono tutti quanti a far i pulciosi o gli appiccicosi, secondo i casi. Ma è un concetto difficile."
Là sotto la gente sbuffa, chiacchiera di vanità, i più avventati leggiucchiano. Altri attendono impazientemente un autobus che sembra non debba arrivare mai e intanto dall'asfalto, subissato dai raggi prepotenti dell'astro, sale il riflesso contorto dell'aria. Spettri informi di calore si liquefanno dietro quest’aria incandescente e trastullano gli occhi con le mutazioni infuse negli oggetti che nascondono. Così dal suolo sale l’immagine di un mondo sconvolto che ritrova se stesso solo ad una certa altitudine.
Rax e l’altro non si scambiano una parola. In silenzio osservano di sottecchi la ragazza, che invece tiene lo sguardo smarrito nel vuoto davanti a sé. Ormai è quasi ora di pranzo e le auto si fanno da parte, divengono più rare, e il sole più leone. Sotto la tettoia qualcuno abbandona il proprio posto per andare verso un bar.
"Guarda quello là! Mio dio! Se ne sta lì imbambolato tutto il giorno, nero d’ombra, all’ora di pranzo, poi, giusto per non morir di fame, arranca e rotola, come un bidone dell’immondizia, verso un panino schifoso. Ma m’illudo, come al solito, perché non uno di noi è dissimile."
- Rax, ho fame, andiamo a riempirci la pancia?-
"Imbecille!"
- No, non è per niente ora e poi dobbiamo agire, ti si è già sciolto il cervello?-
- ‘Sta tua azione m’ha rotto.-
- E tieniti le palle in tasca ancora un po’, no!-
"Questi uomini che non sanno cosa sia l’attesa, cosa sia l’infinito dovere della perseveranza, che vogliono tutto e subito… sono stomachevoli!"
Rax intanto non ha smesso un istante di tenere il suo sguardo critico appiccicato alla bellezza e alla gonna floreale della giovane. Si sente da lontano un murmure di motore più basso di quello delle auto, ma sovrastante tutto.
"Come arranca avvolto nei propri miasmi, l’amico giallo!"
E tremano un poco i vetri della fermata al suo accostarsi. Qualcuno che è rimasto finora in disparte nella penombra, lontano dall'attenzione morbosa di Rax, si alza di scatto, ma con indolenza, ripone il proprio libretto nella tasca dello zaino e sale sull'autobus che ha appena aperto i portelloni.
"Ecco un altro di quei draghi gialli che spalanca i suoi immani boccaporti, le sue fauci meccaniche; ne ammiro la faringe, la laringe e l'epiglottide. Ecco, ingoia le sue vittime nervose che spetazzano tutt’intorno per la fifa."
Rax se sta tranquillamente rilassato con una spalla sul vetro della fermata, mentre la ragazza non accenna a muoversi. L'autobus giallo riparte e alza un nuvolone di polvere che, vorticando nell'aria, infesta tutto ciò che incontra. La ragazza tuttavia rimane impassibile, lontano, su un altro mondo. Rax la guarda con un sorrisetto compiaciuto sul volto. L'altro dà l’impressione d’essere annoiato ed inizia a sbuffare in direzione dell’amico, che si volta e gli trafigge gli occhi senza fiatare. Quello si rabbuia e fissa il suolo: ha accettato il suo destino.
"Da bravo, piegati, amico mio. Ed una volta accettato mestamente il fato, inizierai a compiacertene, fino all’idolatria e al masochismo."
- Mi scusi signorina, che ore sono?-
Rax è rivolto alla sua giovane.
- Come scusi?-
Intanto ella si toglie la cuffia sinistra dall'orecchio.
- Le ho chiesto: che ore sono?-
Quella alza il gomito, con la mano destra tira indietro la manica sinistra, sotto la quale sta celato un orologio femminile, il cui quadrante guarda terra e l'allacciatura del suo cinturino è ferma sulla parte superiore del polso. La ragazza ruota il polso di un angolo piatto e legge l'ora.
- Sono le dodici e mezza-
- Grazie mille!-
- Di niente.-
E rimette la cuffia pendente. Il walkman non è stato bloccato sicché la musica è permasa. Gli occhi della ragazza stanno per annegarsi di nuovo e guardare daccapo l'infinito, quando il suo gingillo si blocca e sussulta. È finito il nastro. La ragazza si desta ancora una volta, apre, estrae, infila e chiude, naufraga già nel suo mondo.
- Rax, andiamocene a casa, forza, ne ho le palle piene!-
- Certo, non appena arriva il nostro autobus.-
- Ma se abitiamo…-
Rax lo inchioda con la folgore degli occhi. L'altro comprende e tace. Si disperde ancora qualche istante, in cui la polvere gioca ad inseguire le mosche roteanti attorno ai visi degli uomini. Questi aspettano e non si crucciano né delle mosche, né della polvere. Ecco, ad un tratto sbuca il giallo dell'autobus. La ragazza l'incrocia con lo sguardo e si sveste delle cuffie, si alza, la gonna tremula fa un respiro, Rax scosta la spalla dal vetro, l'altro gira ancora i pollici.
"Vuol dire che prendiamo la linea sei e abitiamo dalle parti di Via Monte S. Gabriele."
- Forza, muoviti. È arrivato il nostro autobus.-
Rax è un buon attore. L'altro un po' meno, infatti si guarda intorno stupito e osserva timidamente l'autobus. L'affare mastodontico avanza cupo brontolando, balugina la frecciolina languida e il tiranno della strada s'accosta al marciapiede frenando, le porte liberano l'aria dal suo interno, gli arrivati scendono, i partenti salgono, ognuno mostrando un volto differente. Rax è sicuro: non aspetta che la ragazza salga, ma vi sale per primo, dando ad intendere che va per i fatti suoi. L'altro lo segue come un cagnolino, poi sale una vecchia che borbotta qualcosa ed in fine dalla porta anteriore entra anche la ragazza. Ella va ad occupare il posto dietro il conducente. Rax timbra il suo biglietto e quello dell'altro. La ragazza si immerge nelle cuffie. Tutto l'autobus trema perché il cambio automatico si gode ancora la folle, poi l'autista preme l'acceleratore, la marcia s'ingrana e il bestione bofonchia la sua fatica. Rax si siede sul lato sinistro, a metà strada, in modo da poter osservare la ragazza e da prevenire una sua repentina discesa.
"Bella mia, secondo me sei una Veronica… sì certo, una di quelle che son cresciute a soap opera e Harmony."
- Ehi! ‘Sta figlia d’Eva fa di nome Veronica, che ne dici?- sotto voce.
- No, Rax, dico che si chiama Silvia!-
L'altro sentendosi interpellato, si ravviva.
- Inizi a gustartela anche tu ‘sta roba da tordi!-
- La Miseria, lo sai che per me il difficile è iniziare. Lo vedi bene che le tresche mi prendono, è solo che ho fame, cribbio, è ora di pranzo.-
- Suvvia, a iniziare si è già a metà strada, lo sanno tutti, e poi anni fa abbiamo passato intere giornate dietro alle ragazze e ai loro nomi, come oggi, senza toccare cibo, senza lamentarci dello sbacchio. Ci rifaremo stasera al ristorante.-
- E va bene.-
- Comunque quella si chiama Veronica.-
- E sia. Ha, vediamo…, ventinove anni e sgobba in ufficio. Adesso se ne torna a casa per mangiare. Beata lei.-
- Con ‘sta tua buon’intuizione vedo che non ti si è arrugginito l’occhio, dopo tutti questi anni. Anche secondo me ha sui ventinove-trent’anni. Poi, guarda, ‘ste scarpe da tennis tutte scalognate che andavano almeno dieci anni fa. Altra cosa poi, ha sulla maglietta, stampato dietro in piccolo, la scritta: ‘Europe’. Di fianco c'è anche quella chitarrina elettrica, la vedi? Di sfigati ce n’è ancora troppi in giro.-
- Saran mica quelli brutti, ‘sti bambolotti cotonati di vent’anni fa? Mi piacevano per niente…-
- Perché non capisci una sega. Non…-
- Sta a guardare, Rax. Ha una cartelletta sulle ginocchia: pratiche d'ufficio, che ne dici?-
- Forse.-
- Veronica ha un cane…-
- … sì un cagnetto cisposo tutto zeppo di pulci e zecche, l’hanno mica chiamato Ringo?, è un bastardino frocetto, c’è da scommetterci.-
- Quindi vive in una casa con il giardino…-
- …e dato che siamo sul sei e Veronica se la svigna verso casa, mi vien da pensare che abita dalle parti di via Torgano, nelle ville dei ricchi tra la Cittadella e la Bicocca. Magari la troietta sta al Torrion Quartara, invece…-
- Sei sbilenco forte: se è ricca come dici se ne verrebbe mica a zonzo col bus. Certo, non è di quelle che trusciano nei casermoni cadenti di piazza Donatello, questo no, puzza troppo poco per quelli… e non puzza neanche così poco da aver la puzza sotto il naso…-
- Fa niente, non è fondamentale. Piuttosto direi che la pulzella la dà spesso al fidanzato-maritino-premuroso-scassacolgioni, ma non lo calcola tanto, la puttanella. Alla fermata ho visto che la vera non ce l’ha mica, ma le dita se le cura e tiene due o tre cingilli d’oro.-
- E poi porta gli orecchini…-
-… e che mi sta a significare?-
- Sei un arteriosclerotico del cazzo. Deh, ma mi prendi per i fondelli? C’abbiamo passato un secolo a farci masturbazioni mentali sugli orecchini… dio faust!-
Al che i due si guardano in volto ridacchiando, come se si fossero improvvisamente ricordati di qualche avventura passata, che rammenta loro un trascorso di idiozia.
- Senti, Rax.-
- Eh!-
- Le stiamo dietro fino a casa per vedere se abita dove pensiamo?-
- Non eri tu quello seccato da questa roba balorda! Ad ogni modo possiamo farlo, ma rischiamo di ustionarci i tarzanelli, perché ci ha visti, la pupa, mentre salivamo sull'autobus. Se quella ci vede che la seguiamo anche fino in casa, si prende un colpo, la troietta.-
- Embè! Le facciamo mica male, e poi c'è per niente una legge che vieta di passeggiare. Se per caso il mio passeggio capita sopra a quello di una troietta, ne ho mica colpa, io!-
- Va bene, stiamole lontani, però, non mi va che poi le girano le zazzere e ci viene a pigliare a calci nel didietro!-
Ad un certo punto l'autobus si ferma per strada in un luogo ove non sorge alcuna fermata. La porta anteriore si apre e sale un collega del conducente, il Controllore. I colleghi si scambiano parecchie parole prima che l'autobus riparta. Poi si salutano e le obliteratrici vengono bloccate elettronicamente dall'autista. Il controllore comincia a chiedere in visione il biglietto. La ragazza, che non ha timbrato, stupisce i due amici mostrando il suo abbonamento, senza neanche sfilarsi le cuffie musicofore. Il controllore allora si avvicina alla vecchia che brontola, la quale finge di non capire e dice di non sentirci.
"Che scena vomitevole. Quella vecchia megera non l’ha mica il biglietto e inventa un mucchio di balle per tirar scemo il caso. Il controllore è sul punto di perdere la pazienza. Ridicola, che furberia! Adesso fruga come a dire: ce l'ho, ce l'ho; l'ho messo qua in borsa. Ops!, guarda che caso, l'ha perso. L'aveva timbrato! Sissignore! Non si dubita delle persone anziane, s’arrabbia persino, perché il controllore se la prende con lei. Ecco, finalmente la sbatte fuori dall'autobus. Sono testimone della morte della dignità."
La signora è oramai lontana, quando viene il turno di Rax che, con l'altro, porge precipitosamente il proprio biglietto verde. L'autobus procede nel traffico di fermata gialla in fermata gialla. Scende il controllore, salgono due ragazzi con lo zaino. Non timbrano, si siedono.
"Non mi spreco a giudicare quei due teppisti per la «mancata obliterazione»: potrebbero pur avere l'abbonamento. Tuttavia la legittimità del dubbio si proponeva anche con quella vecchia. Non ha importanza, però, il biglietto. Quei due non mi vanno a genio, con o senza biglietto e quella vecchia rompicazzo l'avrei scaraventata dalla tromba delle scale, con o senza ragione. Ma il bon ton me lo impedisce. A giudicar l'essenza delle cose, anche il mondo mi ributta, con o senza umani. E questa è la mia tragedia, cioè … una delle mie tragedie."
Rax volta il collo di un grado appena.
"Eccolo là: un cellulare aggrappato ad uno stronzone puzzolente. Pure il mio amico qui ne tiene uno in tasca, ma almeno non puzza e non attira le mosche. È un buon imbecille; fossero tutti così gli imbecilli del mondo!"
"Chissà com’è la voce della nostra Veronica? Forse non l'ha nemmeno, la voce. Quando mi ha risposto circa l'ora l’ho mica ascoltata, la bella: invece le ho guardato il polso con l'orologio riverso, e le tette, che scoperta! L’angoscia m’ha preso, d’un tratto: ho immaginato le braccia blu, tumefatte. Che saggi i vermi, che esseri iperborei: sanno attendere."
L'autobus attraversa in lungo Viale Giulio Cesare e al semaforo svolta a destra in Via Monte S. Gabriele. Rax aguzza i sensi. La ragazza non si muove, guarda fuori il paesaggio che lentamente muta. La città lascia il passo a qualche prato a maggese, qualche campo di meliga, in somma un bercio di campagna. Rax prima osserva fuori, poi la ragazza.
"Deprimente la campagna, anzi deplorevole. Due secoli fa si diceva: andiamo in campagna a prendere un po’ d’aria buona. Sfido qualsiasi imbecille a sostenere una simile minchiata. Attorno a Novara, mica solo di qui eh, campagna significa campi mefitici, ammorbati di concimi tecno-chimici, di antiparassitari, in definitiva di antitutto, pianta coltivata eccepente ma non sempre e non senza conseguenze. Non sono solo queste le tempere della tavolozza, perché primi fra tutti campeggiano i colori della plastica sparsa un po’ ovunque, come lo zucchero a velo. I rigagnoli sono lerci ed esalano miasmi intossicanti, così i canali sono simili a fogne: ecco la ridente campagna. Ratti e zanzare proliferano. Se un tempo qualcuno eccessivamente maligno, o cinico, poteva usarla come metafora, ora vige in tutto il suo significato letterale: il mondo come una chiavica. Senz’altro è la alhJeia, la verità, anzi la non-latenza: un giorno ho compreso che buttare l'immondizia nei cassoni della spazzatura, pisciare e cagare nelle fogne significa dar cibo alle pantegane. Varrebbe dimettere ulteriori velleità. Il lordume dei nostri vizii lo si scrosta da una parte per nasconderlo dall'altra, sotto il tappeto."
L'autobus ferma il suo corso alla fermata prima (o ultima), quella del Torrion Quartara, il capolinea. Questa è la sparuta frazione che riprende il paesaggio urbano sottratto alla campagna. La ragazza si alza solo all'ultimo momento e scivola giù. I due amici scendono da dietro. Posati i piedi a terra, si accendono una sigaretta, l'autobus ansima dal tubo di scappamento contro il cielo e riparte affannato. La ragazza è sparita.
- Rax, la bella squinzera abita mica nei villini per bene, ma qui al Torion Quartara… un attimo, dov'è che s’è cacciata? È scomparsa!-
- Stai calmo asino, l'ho vista che s’infilava in una vietta laterale. Seguiamola, forza!-
I loro passi risuonano regolari nell'aria calda e luminosa di un primissimo pomeriggio estivo. Non passa quasi nessuno né a piedi, né in macchina. È ora di pranzo e gli stomaci brontolano. Dopo una cinquantina di metri svoltano a destra e intravedono in fondo alla via la ragazza, la quale, ritenendosi sola, balla al ritmo della musica che ella sola può sentire. I suoi tennis bianchi e logori zampettano lesti saltellando. Rax sorride.
"Ma sì, ma sì, la vitalità, se ne sta tutta trafficona, è pure bella, mica la vita, però, che è piena di magagne. La vita della gente vale meno della cicala che rompe le palle sotto la mia finestra. Si canta, si mangia e si defeca, si è già morti però e abbiam già fatto fin troppo. Oggi il sole ci illumina, domani ci scioglierà come uno stronzetto da niente."
- Rax, guarda! Abita in quella via.-
- E che ne sai tu? Forse è venuta a stuzzicare un'amichetta, sua madre, suo padre, il suo cane, il suo compagno, …la morte.- sotto voce.
- Come, scusa? Non ti ho sentito.-
- Niente dicevo per dire, che magari è venuta a trovare qualcuno, la troietta.-
- E già, per nulla scema.-
La ragazza si appressa al cancello di una villetta circondata da un modesto giardino verde. Ci sono citofono e campanello coperti da una tettoia di cemento. Infila la mano e pigia. Rax e l'altro si tengono a distanza. Hanno dalla loro che quella non può sentirli. Da una finestra aperta della villetta una voce femminile saluta. Il cancelletto scatta e la ragazza vi entra. Si sta sfilando le cuffie nere. I due amici avanzano defilati verso la finestra da cui è uscito il saluto. La finestra è ad altezza uomo, sicché i due si scostano leggermente per non essere visti. Non scorgono che un angolo dell'interno: c'è un arbusto di mezzo, tra loro e la casa.
"Le case ci hanno fregato, hanno portato l'uomo alla rovina. Zeppe di agiatezze! I popoli scorrazzavano liberi, selvaggi, nomadi, s’appioppavano al deretano delle mandrie, vivevano dei frutti della terra e sgagazzavano a più non posso quando ne avevano voglia. Poi l’indolenza li portò a diventare sedentari, alla fine si son presi l’abitudine di guardare il tramonto sempre dallo stesso buco puzzolente. Si vestirono di pelli perché non faceva per nulla caldo tutto l’anno e per questo si trovarono vergognosi a vedersi i bigoli. Zapparono la terra e ne divennero schiavi. Senza un uscio dentro cui cacciarsi se la facevano sotto, senza una pelle addosso soffrivano il freddo e l’imbarazzo, senza un campicello crepavano di fame. In breve si convinsero a scannarsi perché la schifezza degli altri è sempre meglio della nostra. Gli uomini poi s’abituarono a costruire armi ben appuntite con cui inforchettarsi; c’è tutt’ora da mettersi paura dell’uomo piuttosto che di qualsivoglia belvetta sdentata. L’hanno mica capita, i pirla, che è solo una minchiata, quella di tirarsi la zappa sui piedi."
La ragazza viene inghiottita dall'androne della villetta e al suo passaggio una porta s'apre si chiude. Da fuori Rax ascolta insieme all’altro, attraverso la finestra, i passi di lei e quelli dell'altra donna convergere nel medesimo punto.
- Ciao gioia, com’è andata ‘sta mattina?-
I due fuori si guardano compiaciuti e sghignazzano: «gioia…».
- Da schifo, non ho ancora finito di sgobbare; gli venisse un infarto a quel lardoso... Ho persino alcune scartoffie da disbrigare a casa. Ne avrò per tutto lo stramaledettissimo pomeriggio.-
- Mi dispiace, Veronica. Vedrai che prima o poi ti sarai organizzata meglio e avrai più tempo libero.-
- Speriamo bene, è mica bello, si rischia di uscir fregati coi tempi che corrono!-
"Con i tempi che corrono rischi di cadere, mia bella Veronica! È una vita balorda, ma ‘sti tempi non son per niente peggiori di altri, tutti tignosetti a modo loro. Se non è la malaria a schiacciarti, ci penserà qualcos’altro."
- Rax, sto tutto affamato e c’ho lo stomaco che si lagna. ‘Sto nostro inseguimento, però, m’ha proprio preso. Erano anni che non mi rugavo di stare ad osservare la vita degli altri, non son meglio di me, stan mica bene, loro. Li guardi quelli belli e coi soldi fin nel didietro perché ti rode che sei uno sfigato e poveraccio, ma te la ridi e lo sfotti se ne incontri uno più disgraziato di te.-
- Sai che hai ragione, non sei nel torto, stavolta. Vediamo sempre un mucchio di persone che si trascinano dietro fin in casa i loro casini, e per una volta ci siamo andati con loro. L’abbiam beccata, noi, ‘sta scena gelosa, abbiam visto un frammento di quella vita che si teneva per sé. Te ne vai da un luogo e te lo chiedi, se mentre non guardi, lì le cose rimangono uguali o se per caso ti fan fesso e si sformano, si burlano di te, fingendo ogni volta che torni a sorvegliarle.-
" ’Sta qua è la morte, sicuro: spiare le cose, le persone, quando pensano che non li guarda anima viva, e constatare che non mutano, che non scompaiono davvero, invece rimangono identiche a sé stesse nella loro schifezza. Né il sole né la morte si possono guardare fissamente. Il gioco vale la candela, giacché la permanente infelicità, la salda forma inaccettata si scopre collettiva. Svelando una permanenza testarda dell'essere in tutte le cose, in tutte le persone, la condividiamo, dunque la addolciamo. Così che possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo: non sono solo io. Ciò sta a significare solamente che non abbiamo che da scegliere in quanti sopportare ‘sto sbacchio cosmoteandrico."
È rimasto pensieroso per qualche istante, mentre l'altro non replica e annuisce, ascolta e scruta quell'angolo di mondo. Rax continua.
- Immagina: fra poco arriva a casa il padre e pranzano tutti insieme. La sbobba annega i piatti, il piscio giallo nei bicchieri, danno voce alle loro furberie, le percezioni son come sopite, i pensieri impastati. Si raccontano la loro giornata di menate. Il vecchio poldo si lamenta, si lamenta la troietta, quell'altra li consola, la vecchia: vedrai che un giorno… Le mosche invece se ne sbattono dei guai del mondo e sorvolano vincitrici la tavola in cerca di budellame. Planano, azzannano tutto con le loro proboscidi, tutto quanto sia commestibile. E la polvere copre già i visi dei commensali come preludio alla polvere che saranno. Poi magari suona il telefono e… ciao caro, ciao cara… dove andiamo oggi pomeriggio? Mi dispiace ho del lavoro da finire. Ci vediamo stasera?… va bene. Passo alle nove… ok ciao a presto, ciao… con ‘ste loro vocine per bene. E sempre la polvere s’assiepa sui loro visi. Le mosche già sguazzano nei loro teschi e i ragni hanno tessuto le loro appiccicose tele. Poi anche i vermi sbucano da sotto le assi del pavimento e s’avvinghiano ai loro corpi e li fanno a pezzi, li digeriscono e li vomitano. Intanto quei tre, però, ancora sgranocchiano e si lamentano dei loro trugli, in una diatriba attorno ad un bel tubo di nulla.-
- Ehi Rax! Smettila di rovellarmi il cardine col tuo ronzo! Tieni il planetario rinsecchito, per me sei un allucinato del menga!-
- E tu sei un bamba bello e buono... A dir il vero sei uno sporcaccioncello niente male…-
- Finiamola lì, eh! Adesso me ne vado sul serio, io, ne ho le scatole piene forte. È già l'una e un quarto e a casa c’è chi mi aspetta. A stasera.-
- Ma sì, vai che è meglio così. Me ne vado anch’io, m’han stufato le solite biffe. Passami a prendere in tipografia: ho qualcosa di interessante da farti vedere...-
- Sarà mica quello che penso io?-
- Se vieni lo vedrai, bello mio. Su va’ che passa il tuo pullman.-
- Non mi segui tu o non riesci a starmi dietro?- s’invola intanto all’inseguimento del mastodonte giallognolo che non accenna a rallentare.
- Prendo il prossimo, c’ho mica fretta, io!-
Quell’altro grida qualcosa all’autista che addomestica il suo mezzo interamente vetrato. Lo smilzo a piedi, prima di salire, scuote velocemente la mano in direzione di Rax; è qualcosa di simile ad un saluto. Rax non si scompone, cerca d’evitare i gesti inutili.
"Non ho nessuna intenzione di tornarmene a casa. Tanto è un’altra che lavora anche il sabato, Rossana, quindi non sono atteso. Adesso che se n’è andato, l’idiota, - c’ho perso la giovinezza con ‘sto sgherro – mi posso divertire. Non devo mica sottovalutare i guai che quello mi può procurare, ci penserò più tardi, però."
Rax si avvicina di più al cancelletto e nota una cuccia con tettoia sul lato sinistro della villetta.
"Avevo visto giusto. C’è uno stupido cane che sonnecchia. Ed è anche un imbecille, il cagnetto pidocchioso: non ha abbaiato a due estranei fermi davanti alle inferiate del suo territorio."
Rax si muove lesto, ancora più appresso al cancelletto, ma questa volta scorre lungo il perimetro del giardino, volta l’angolo trovandosi accosto alla cuccia del cane. Rax sta accovacciato in una vietta laterale tanto stretta che due persone affiancate stenterebbero a passare. Alle sue spalle c’è un muretto alto almeno un metro e mezzo che segue i contorni d’un altro giardino. Lì acquattato non può essere veduto né dalla strada, né da altre vie attigue, né dalla villetta contigua. È visibile solamente dalla porzione di giardino che ha dirimpetto, dove c’è la cuccia.
- Ringo, ehi Ringo, mi senti? Vieni qua, pirletto, che ho qualcosa da farti ingoiare.-
Sussurra ancora qualche frase del genere, poi emette un fischio debole ed un cagnetto bastardo esce dall’ombra della tettoia, scodinzolando. Con la lingua di fuori saltella verso l’uomo. Questi protende le mani verso il cane. Appena l’animale si fa vicino a sufficienza, Rax l’afferra con uno scatto folgorante che il cane non fa tempo nemmeno a sospettare. Le sue mani costringono violentemente il collo del cane e lo stritolano, tale è la possa della presa. La misera creatura non può emettere neanche un guaito. La lingua fuoriesce in tutta la sua lunghezza, gli occhi strabuzzano, il collo fa crack. È morto, le membra lasse ricadono lungo il corpicino, come il collo dei girasoli si piega alla fine del suo corso. Rax è sudato un poco sulla fronte. Le mani si rilassano. Tutto tace: le api ronzano, il sole osserva muto. Rax con uno slancio getta il cadavere di peli contro la cuccia e se va via con calma.
"Ogni azione comporta un rischio, ne sono ben consapevole. La difficoltà sta nel cogliere il fulcro di quest’equilibrio fuggevole, onde giungere sullo spartiacque, né prima, né dopo. Solo in bilico si ottiene la visione dell’intero, si può giudicare l’azione e soppesarne il rischio. Epperò nel momento dell’azione non possiamo sapere se ci troviamo realmente sullo spartiacque o più in giù; è il principio di indeterminazione". Rax si alza e decide di andare a farsi un giro in centro perché la giornata è invitante.
"Mi disgusta la gente, ma il bello è proprio qui: il diletto d’essere disgustato. Se la gente non mi suscitasse ribrezzo, allora non la osserverei, non la studierei, non la seguirei. Solo ciò che disgusta pienamente e fa accapponare la pelle, vale la pena d’essere amato, mica il resto che puzza sempre di familiare. Ammiro l’orrido e il delittuoso, amo l’anfratto in cui si dibatte il sorcio, la palude delle zanzare malariche, il muschio verde nei tubi delle cloache, la libellula nella rete del ragno, la mantide omicida, il corvo, nero come un corvo, il terrore della mosca in un pugno chiuso, il marcio delle cantine, amo dunque l’umanità nel suo mondo. Non sono per nulla pessimista, io, il mio è sintomo d’un ottimismo sfrenato, senza ritegno, dunque fallito."
Rax abita in una palazzina grigia come il cielo della Bassa, striata di marrone. Ci sono alcuni piani, ma egli non sa con certezza a che piano abita. Esce dall’atrio grigio a vetri, finendo nel cortile, grigio come il mare quando è grigio, e sfiora il cancelletto. Tlack, si apre. Muove qualche passo sul marciapiede sottile e sputa a terra con fastidio e ripugnanza.
"Che nausea l’estate! ‘Sti colori accesi, ‘sti insetti gialli e verdi che infestano l’aria con i loro ronzii! Ma si sopportano a cuor leggero. Invece troppo ampio è il Sole! Troppo in alto se ne sta sulla mia testa! Ricordo ancora quando lo scheletro smilzo di quella nave di marinai l’aveva sbarrato. Ricordo l’equipaggio, la morte e la vita che parevano far l’amore tanto erano amplesse. Ci guardavano e ci uccisero alla fine, le sporcaccione. Soltanto uno rimase vivo, iellato fino all’ultimo. Era l’antico marinaio che bighellonò in lungo e in largo per il mondo a scocciare tutti quanti, e poi ti tira fuori come uccise l’albatro, come profanò la natura e ne fu castigato, come fu salvato dalla stessa benevola e di come tutti lo prendevano per una larva umana.
Nubi… ce l’ha fa mica a ripararmi la testa dalla cocente vergogna, ‘sta nuvolaglia svogliata!"
Rax si trova in Largo Piemonte, così da poter tagliare verso Via Camoletti in direzione Est, ossia verso il centro, senza esitazione. Sono le quattro di pomeriggio e per le strade c’è silenzio, qualche bicicletta, qualche motorino, poche auto. Rax conosce bene la strada, giacché guarda i suoi piedi e non la via. Osserva le scarpette blu scomparire e ricomparire ritmicamente in modo tanto dolce da indurlo a proseguire, benché una stringa si sia slacciata.
"Sono i mie serpentelli fedeli che mi seguono, queste stringhe porche. Erano bianchi una volta, i serpentelli, ora ingrigiscono come dei vecchi martini: non fanno che mimetizzarsi. Eccolo, bel topolino, attraversa la strada, è grasso come neanche un verro. Spero si ingozzi di esche avvelenate. Ormai carcassa, lo mangerà la biscia che l’acchiappa un qualche uccellaccio. Sgagazzerà lontano, ‘sto furbo, e i suoi stronzini saranno piscina per vermi e batteri, broda prediletta delle colombe e delle quaglie. Ci sarà da ridere se uno di quei tonti col fucile l’ammazza, la quaglia, e se la sgranocchia. C’è sempre la possibilità che si becchi una cacarella di quelle toste: la speranza è proprio l’ultima a morire…"
Rax conosce già il suo destino. Cammina pensando e pensa camminando; intanto respira, il cuore gli tumultua nel petto, gli occhi scrutano, i padiglioni vibrano, le nari s’inarcano, il cervello rielabora. Tutto per niente.
"Per niente è tutto questo. Se non che, io alimento l’entropia universale, son utile forte. Ci sarebbe da entusiasmarsi se l’universo fosse stato generato dal Grande Schioppo, unicamente, e tendesse ad espandersi, senza darsi fastidi se le stelle si perdessero nell’infinità del nulla. Mai più si rivedranno, né si toccheranno, le stelle gelose. C’è mica di che star tranquilli, stiamo sprecando la nostra unica possibilità in un mare di robette vanesie. Sarebbe ancora più dirompente la nostra sconfitta, vale a dire più esilarante, nel caso in cui le uniche forme viventi fossero i terrestri, a capo dei quali crapulano gli umani. Tutta ‘sta fatica inane, da perdaballe, ‘sta sofferenza gratuita, da gesùcristoincroce, sono uno spreco d’energia, ma tant’è che gli unici a lagnarsi son quelli che fanno il casino. Invece c’è da dispiacersi per le stelle che mai più si scorgeranno, in perenne fuga, così che un altro io poveraccio, più giovane di me di miliardi d’anni, da un pianeta qualsiasi guarderebbe il cielo notturno e troverebbe solo il Buio; si sta freschi a vedere il buio del nulla. Vien da pensare che all’infuori del nostro sasso e del nostro faretto non c’è niente di niente. S’avrebbe meno crucci."
Rax sta passeggiando ripiegato su se stesso, contratto nei suoi pensieri, non guarda dove mette i piedi, non nota l’asfalto che gli scorre sotto, giacché non ha occhi che per i suoi assilli.
"’Sta terra che mi sfugge via sotto i piedi, mi rifornisce per niente d’una risposta, s‘affida al caso, lei, ‘sta palla. Le piace solo fare quello che ha sempre fatto, l’importante è girare…"
Viale Roma non patisce molto traffico in questo periodo. L’estate porta con sé il caldo, la luce, la bicicletta. E chi è furbo ne sa approfittare. Rax percorre il viale…
"Dovrebbero avere un po’ di dignità, ‘sti novaresi spilorci, e ripiantare gli alberelli che Viale Roma mostrava mezzo secolo fa. Oppure dovrebbero chiamarlo Corso Roma. Fa in fretta l’umanità, con la testa piena di cazzate, a scordarsi che i «viali» sono costeggiati da alberi. «Viale» è mica lo stesso di «corso», così come una pianta non vale un’altra."
… e non si avvede degli uccelli che cinguettano vitali, né delle mosche nere e pelose, né dei ratti che sempre meno timidi affacciano i musi dai tombini. Rax non si avvede che intorno il mondo vive. Pone la mano destra sul braccio sinistro e tira su una manica che non esiste. Guarda l’orologio, le lancette, il tempo.
"Dio immiserito! Le quattro e mezza! Ci sto impiegando un mucchio di tempo… il tempo mica si può ammucchiarlo! Che è tardi, me ne infischio, non c’è niente che mi punge il culo. Non corro di certo in lungo e in largo come un forsennato che cerca di rastrellare oro e merda tutto insieme nel cumulo, a più non posso; né si appiccica mica sulle mie spalle il vessillo nero della noia angosciosa; non corro neanche se mi tirano per il naso…"
E’ arrivato alla Rotonda.
"Ecco il colosseo di Novara. Di fianco è pieno di somari che vanno sottoterra nelle fogne per fare fitness e si ingozzano di wellness, per paura che lo Zio se li porti via troppo presto, prima che il loro ammasso di sterco sia alto alto. Mi fanno per nulla compassione, me ne frega niente, a me delle loro vite fumose: i topi sono voraci, non disdegnano, son mica schifiltosi come me che sono un pirla da niente."
Si ferma davanti ad un semaforo rosso. L’omino rosso composto, fermo lo scruta.
"Che diamine vuole quel bifolco? Adesso passo!"
Rax attraversa perché i semafori luccicano di tre colori, uno alla volta, senz’altro. Le auto brontolano, alcuni freni fischiano, ma egli non se ne avvede e fissa la sagoma rossa con aria di sfida.
"Che vi gridate! Che fretta avete d’andare! Dove vi scaraventate, sacchi d’immondizia?"
Il suo volto è rivolto all’altra sponda, mentre il traffico non eccessivo defluisce ancora una volta regolare. Rax infila le mani nelle tasche dei bermuda neri e le caccia in fondo fino a scomparire. Passa davanti all’istituto musicale Brera e un bagliore di musica raggiunge il suo timpano.
"Questo è il Ludwig van, noterebbe un mio «bigio» amico, uno di quelli tosti, un malcico di quelli seri."
E in effetti è Beethoven con l’Eroica.
"Era per quel nano di Napoleone Bonaparte, il liberatore, doveva essere in suo onore, ma il Ludwig van disilluso si decise di non dedicargliela, perché alla fin fine ‘sto Còrso s’era rivelato un depravato minchiuto come gli altri, che stan dietro al mangia mangia generale. Si son risolti in una degenerazione assoluta l’Illuminismo prima, il Romanticismo poi. Il fallimento è un po’ il coronamento d’ogni epoca storica, per questo la storia non mi riesce di capire se abbia un senso dell’umorismo enorme o se le manchi del tutto!"
Rax cammina lungo il viale dell’ospedale di fianco alle panchine, sul sentiero in mattonelle opache. Guarda in su verso gli alberi fronzuti.
"C’è il tanfo della morte qui attorno. Oltre quella sbarra, la sbarra dell’ospedale, la linea che divide i sani dai malati, c’è la ragazza madre che nasconde il ghigno sotto un cappuccio di raso."
Poggia ora i piedi in Piazza Puccini, sede di manifestazioni estive. Rax ne ha per tutti…
"Luogo putrido ’sto qua, vi fa capolino una fama subdola! Di lì a sinistra stanno le mummie incartapecorite che gridano ancora «va’ pensiero sull’ali d’orate». Sui loggioni del teatro Coccia si mischiano le scoregge mefitiche dei babbioni impomatati, nel gaudio di una mala bolgia. Qui a destra invece si piazzano quei saltimbanchi ambulanti che gridano nei microfoni, che le scoregge, invece, loro se le incendiano per far vedere che son padroni della loro vita. Là dietro è la colonna infame."
Si siede su una panchina dall’aspetto nuovo, moderno, affusolato, senza macchie.
"’Ste panchine nuove son già decrepite, obsolete. E questo cespuglio alle mie spalle, è moribondo, asfissiato dai peti di tutti i bavosi che si purgano le chiappe su ‘ste assi… Ricordo mica più perché sono arrivato fin qui… Oh già, la gente… disgustosa. Vediamo un poco."
Rax alza lo sguardo perché sente della musica provenire da Via Rosselli, sotto i portici.
"Che ci fa quell’acefalo con la macchina posteggiata lì? Da dove diamine è sbucato, in centro puoi mica passare? Non c’è nessuno che gli tira in testa un mattone e gli fracassa quella sua radio stonata!"
Rax riporta la linea dell’orizzonte sull’entrata posteriore del teatro, poi lo sguardo vaga un po’ qui, un po’ là. Passa, in fondo, lungo la via una ragazza con un cane.
"Lurida pulce pisciatutto. Mi dai più nausea tu o chi ti tiene al guinzaglio?"
Fanno quindi la loro comparsa alcuni ragazzini in gruppo. Sono tutti impettiti mentre ridono e si divertono. Due di loro prendono a calci una lattina ed è improvvisata una partita di calcio. Le ragazzine del gruppo subito si schierano a fare il tifo mentre i giocatori si impegnano, giacché in palio c’è il loro onore. Non c’è campo, non c’è porta, ma quelli si prodigano comunque.
"Ridete e sghignazzate mocciosi fin che siete in tempo, fino a che avete denti sani e belli da mostrare al mondo. Verrà pure per voi la morte e avrà i vostri occhi, la battona scheletrica, e i vostri denti. La Ragazza dai capelli bianchi non conosce la pietà, i suoi occhi sono profondi come l’universo, i suoi denti aguzzi come spiedi."
I ragazzini non fanno in tempo a nascondersi dietro al palazzo ottocentesco sulla destra, che compare a sinistra un giovane con i capelli lunghissimi, accanto ad una ragazza minuta dalla capigliatura rasata quasi a fior di pelle. Seguono tre ragazzi ben vestiti con altrettante ragazze altezzose.
"Che puzzo!"
Rax si alza dalla panchina su cui lancia uno sguardo deplorante; poi ammicca con gli occhi al Sole e imbocca Via Rosselli.
Si ferma di colpo: si direbbe che stia pensando.
"Entschuldigung Sie, wie spät ist es?… Come scusi?… Weißt du die Uhr? Oder bist du eine Hure?… Che vuoi crucco mangiapatate?… Ma vafangulo! E dimmi st’ora!…Tie’!… Gott sei Dank!! Me lo son mica dimenticato il tedesco…"
Rax sta ora immobile mentre scruta la sua ombra lunga, l’ombra che guarda l’oriente.
"Der Ritter kommt und bringt den Tod. Mi sento bene nei panni luridi del cavaliere, der Ritter, che viene e porta la morte; non son convinto punto di ‘sta mia presunzione, ma in qualcosa è bene che la vita si definisca."
Il sole giallo, inguardabile, assiste silente ai pensieri di Rax, mentre questi si fa schermo con una mano sugli occhi proprio per contemplare quello.
"Il Sole si spenga pure ora, non mi importerebbe. Il cielo si tinga di rosso, i mari ricoprano tutta la terra, non me ne curerei: bisogna fottersene dei sensi di colpa. Mi si prometta, però, la vita eterna, dio boia, o l’eternità eterea, o si osi impormela, allora sì che l’umanità, o chi per lei, proverebbe il mio grido di rivolta. L’unica lusinga è che finirò. Le certezze vanno affilate, di giorno in giorno, finché sono aguzze e dolorose, poi si devono affinare perché dobbiamo inghiottirle, affamati come siamo, e saziarci di quel po’ che siamo riusciti a coltivare, persino della certezza che mancano certezze."
Rax riprende il suo incedere lento verso Piazza delle Erbe ove, appena giuntovi, rimira la mattonella che segna il centro della città, osserva il chiosco dell’edicola, la libreria Rizzoli con il suo arancione vivo, intravede il cinema chiuso e prosegue. Incrocia Corso Italia luminoso e trasparente di tutte le sue vetrine. Sputa alla vista della sede del CCD, sputa alla vista di un piccione, sputa alla vista di una bettola con le lanterne rosse, sputa alla vista di scarpe costose, sorride quando un topetto furbo sgattaiola via veloce, perpendicolarmente al corso, e s’occulta in un tombino.
Appena Rax si stufa del mondo, ritorna in fretta a casa sua, in Largo Piemonte. Nell’alcova che l’aspetta c’è Rossana, sua moglie.
"Eccomi un’altra volta a casa, inghiottito dalle mura domestiche, costretto ad ascoltare quel disgraziato con la chitarra che vomita note sulla mia testa. Oh, ma un giorno o l’altro vado su e quella chitarra gliela spacco sulla crapa pelata! Eccomi qua dunque, nella mia domus, ma già queste porte mi vengono a noia, voglio ancora una volta sentire l’odore del vento che ti pizzica i peli del naso, il suo aulire sopra ogni asinata umana, assaporare il caldo di luglio cha appiccica tutto, intendere i topi e i loro rantoli. Un tempo potevo tutto questo e lo facevo con Rossana. Ora la quaglietta bella e rotonda se ne sta di là! Ha da fare, la capisco, ognuno ha le proprie croci, lo sbacchio d’una vita. C’è chi l’ha enorme sulle proprie spalle, c’è chi l’ha così piccola da riuscire ad appendersela al collo, c’è chi l’ha gigantesca ma ha comprato un rimorchio e un trattore, c’è chi non l’ha perché se ne sbatte ed ogni volta la scaraventa a terra, la croce."
- Ciao Rossa. Come va?-
- Hm…-
- Loquace… È pronta la cena?-
- Hm…, sono solo le sei, non è ora di mangiare.-
"E già, come sempre ha ragione Roxana. Forse sta al mondo proprio per questo, per aver ragione di me. A vederla ti vien da riflettere se ogni balordo non abbia un suo compitino da adempiere, nei confronti di qualche altro inetto…"
Un ragnetto capitombola sulla spalla destra di Rax, il quale se ne avvede e osserva l’ottopiedi danzare tra le maglie strette della T-shirt nera. Poi con uno sbuffo lo scaccia lontano nell’aria.
"…no no, non è giusto rincoglionirmi con ‘ste balle pseudoidealistiche, balle per pervertiti, balle per deboli ruminanti… eufemismi solo eufemismi. Non esistono i compiti degli uomini, hanno nessun motivo di sbrodolare nell’Essere se non in funzione della loro stessa esistenza. A scuola mi chiedevo, io, che senso avesse «esaudire» i compiti, sempre un desiderio altrui, che mi parevano proprio inani e che ritenevo spogli d’ogni interesse, insomma delle bufale colossali. Poi ho ammonticchiato negli anni compiti su compiti, obblighi su obblighi, affari su affari e mi sono detto che erano serviti, certo, a qualcosa, a me, che mi avevano migliorato schiudendomi nuovi orizzonti… Potevo mica ammettere di aver bruciato l’esistenza in compiti insensati, d’aver vissuto di minchiate. Per ciò ho concluso che i compiti dell’uomo non esistono mica; chi ci crede, ai compiti, può solo essere ottimista e l’ottimismo non c’entra niente con la vita. L’iguana vuole per niente diventare una borsetta con la puzza sotto il naso, sarà mica ‘sto qua il suo compito?, né il compito d’un pirletto quello di doverla infilzare e spellare, d’un altro quello di farci una borsetta, di venderla, di convincere un tale fetuso a comprarla, e ‘sto balengo poi deve pure succhiarsi via i soldi dello sgobbo per comprare la ghirba d’iguana? Senza contare che c’è il deficiente che la porta in giro per il mondo, la sua borsetta, e c’è quell’altro che la guarda e la vuole proprio perché è troppo carina, e giù allora a cavar fuori le iguane dalle loro squame, che a perderci davvero son sempre loro!"
Ora Rax è seduto in poltrona che fissa immagini occulte al resto dell’umanità. Erge il cipiglio in alto e mostra la lingua rossa e carnosa. Sa che nessuno, nemmeno Rossana, lo sta guardando.
La mattina dopo si sveglia prima del solito, giacché nella mente sente alcuni pensieri scuoterlo. Si veste velocemente. Fulmina con lo sguardo la sveglia sul comodino: sono le sette e mezza. Bacia sulla guancia Rossana che sta riversa sul letto e la saluta.
- Vado in tipografia. Ciao.-
Rax esce di casa un po’ trafelato. Ridacchia.
"Se almeno il mondo fosse tutto in bianco e nero, potrei ben vivere seguendo le decisioni senza imbrogli: bianco o nero. Il mondo, però, ‘sto sconcio, ha mille colori, il nostro occhio ne capta alcuni, un’inezia rispetto al possibile, un’infinità rispetto alle mie possibilità. Se solo potessi stringere in mano uno dei colori, se potessi anche vederlo, oltre a guardarlo come un beota, noterei, allora, il bianco e il nero che c’è in tutti i colori. Invece ‘sto mondo scollacciato sulla mia mano se ne fugge via tra le mie pieghe, come la sabbia tra le dita dei bambini. I vecchi si danno mica più la briga di acchiapparla…"
È in strada e si ritrova, mosso dalla mente claudicante, davanti ad una vetrina: è una lavanderia. Osserva un oblò al cui interno i panni vengono centrifugati e i colori sfumano l’uno nell’altro fino a sparire e a formare un’unica miscela che, in un crogiuolo, si fonde e trasfonde in qualcosa d’altro.
"Ho in bocca il sapore delle cornette con un sugo di pomodoro. Che senso ha, son proprio alla frutta dei pensieri? Collego le cornette a Rossana, quanto tempo che ci trastulliamo insieme! Neanche per lei ho più molta importanza, sarà che non la eccito... Eppure con la sua essenza, con la sua esistenza, mi trattiene dall’estinzione, dall’annullamento, la bambolona che è una combattente. Quante lettere di commiato ho già preparato, son lì per lì a tirar le cuoia e le scribacchio ‘ste lettere, con foga pure, mi ci prendo, ma rimango come un surgelato. Le lettere di per sé sembrano un po’ troppo artificiose per un suicidio, nevvero? Suicidati e basta!, insomma «vai fuori dalle palle ma non rompere…». Non io, però, che son meglio degli altri; devo dare esplicazione di un atto che è l’estrema protesta contro ‘sto mondo fetente e una vita immonda. Sopporterei mica che i sopravvissuti non conoscessero le ragioni del mio gesto. Accadde, a dir il vero, una situazione siffatta. Mi accorgevo di perdere la mia misera battaglia con la vita e con le rappresentazioni di volontà altrui. Mi stavo piegando al loro peso e lentamente mi ingobbivo. Mica mi potevo rassegnare, tradimento! D’altro canto, chi si sarebbe sbattuto a testimoniare il tradimento, lasciamo zero testimoni, c’ero solo io. Eppure la rassegnazione è l’unica lezione dell’esistenza, ma significa anche perdere e dar godimento agli egoisti creatori della vita. Ci sputo sopra, a quei verri che confondono il didietro della scrofa con un tubo impuzzolentito! Qualche mente avrebbe potuto obbiettare: tuttavia il suicidio è il piegamento massimo, con l’angolo più ampio! Magari è proprio così, ma il suicidio mi avrebbe evitato almeno di essere testimone della mia flessione. In somma, la mia letterina ultima era già pronta, lì, firmata e imbustata, quando un profumo sublime violentò le mie narici, vale a dire mi eccitò. Era l’odore incantatore di Rossana, la quale sfrecciò in corridoio, del tutto ignara. Mi avrebbero dovuto uccidere, perché da solo non avrei mai osato, finché quel culo generoso mi ballonzolava davanti agli occhi.
Oggi, dunque, eccomi qui, riflesso d’un riflesso, laggiù in quella vetrina. Macino intimamente un vuoto che inghiotte l’universo, il vuoto dei citrulli, che minaccia una sortita per aggredire tutta la pienezza della solidità materiale, come in una vomitata. Opprimere o essere oppresso."
Rax si volta.
"Quel che io so tutti possono sapere; ma il mio cuore, quello è solo mio! Era mica scemo ‘sto Goethe."
Muove qualche passo pensieroso intanto che le mani si rifugiano in tasca.
"Catullo era un disgraziato, e certo, era un segaiolo maturo: odiava e amava senza sapere il perché, e se glielo avessero chiesto rispondeva che gli accadeva e basta, et excrucior impensius, s’ostinava con ‘sta litania, che si dannava per ‘sto suo casino di donne (e uomini), mi convince mica. È che si è indecisi, dannatamente indecisi, ogni manfrina è per via d’un’indecisione. Siamo così indecisi che sprechiamo una vita a scegliere cosa essere."
Rax raggiunge una fermata dell’autobus, su cui transita la linea sei. Alza gli occhi ancora una volta sul sole e s’infuoca le pupille di quel chiarore inestinguibile. Per qualche secondo rimane completamente abbagliato, così che il mondo si tramuta in macchie verdi, rosse e gialle, danzanti in preda all’agonia. Una macchia gialla più grande e netta delle altre avanza intrepida fino a fermarsi. È l’autobus sul quale Rax sale in estasi. Timbra, si siede, sorride del suo infantile godimento. Il pullman volteggia per le vie fino al capolinea, cioè Torrion Quartara, ove Rax scende guardando il suolo.
"Nella vita si scende e si sale anche quando si rimane immobili, e viceversa, ovviamente."
Sono all’incirca le 10,00.
Rax svolta per le viuzze così disinvoltamente da parere il vero abitante della casa che ora raggiunge. L’abitazione è quella in cui vive Veronica con madre e padre e cagnetto (il fu).
"Bel giardino, ‘sto qua, il vecchio c’ha la passione del prato all’inglese, il pollice verde!"
Una finestra è spalancata permettendo a Rax di appostarsi al fin di vedere senza essere visto. Gli riesce bene, giacché si piazza dietro all’inferriata del cancelletto coperta da un arbusto folto. Ivi aspetta paziente.
"Tutte moine da squilibrati, ‘sta santa pazienza! La pazienza e la calma son mica le virtù dei forti, soltanto dei pazienti e dei calmi. Il mio sospetto è che i pazienti e i calmi siano anche dei deboli, dei vigliacchi. Difatti sono anch’io un debole, son un pifferaio da niente, altrimenti non starei qua a menarla tanto per le lunghe, ad inseguire le mie ossessioni."
Un cigolio ed un’altra finestra si spalanca vomitando il volto pallido della madre. Un volto stanco, dalla pelle triste, le cui rughe seguono linee magnifiche suicidantesi di fianco agli occhi, ai lati della bocca, sotto il collo. Veronica intanto scende dall’autobus successivo a quello di Rax. Egli la vede: l’immagine snella di lei corruga l’aria calda in lontananza. S’acquatta per non essere scorto. Ella ha già in mano le chiavi del cancelletto, mentre i suoi passi fanno scricchiolare la ghiaia.
"Ossa che si frantumano, ossa che ridono."
Veronica è ormai di là dalla recinzione.
- Ciao mamma.-
- Ciao Veronica, è andata bene oggi?-
- Benone, forse finalmente riuscirò ad ottenere qualcosa dal mio lavoro!-
"Immagino come, gli avrai levigato il bigolo al padrone, eh scrofetta da quattro soldi!"
Rax sguscia fuori veloce, scavalca il cancelletto e infila un piede tra la porta di casa in procinto di chiudersi e lo stipite. L’uscio, interdetto, si spalanca per reazione e il viso tenero, stupito di Veronica, spunta fuori dalla superficie immaginaria contenuta dallo stipite. Riesce a fissare l’uomo per un solo istante. Rax è già in casa. Nessuno ha visto perché non c’è nessuno che possa vedere. La madre tenta di urlare, ma non può, giacché un caldo mucrone è già fitto nella sua epiglottide. Sangue. Una mano di Rax tiene muta Veronica, la quale sgrana gli occhi e si dibatte. Si chiede cosa stia succedendo, ma l’adrenalina la istiga solamente a fuggire. Rax in cuor suo risponde.
"Veronica, ti scaldare mica: ti ammazzo e la finiamo con ‘sta menata. Non sai che la vita implora le sue vittime sacrificali!"
Tutto sta avvenendo troppo velocemente perché le sinapsi di Veronica abbiano il tempo di presentire la morte imminente. Ma non importa.
"È tutto un brivido languido che scivola via. Senza tempo, siamo esseri senza tempo."
La mente di Rax ora è un vuoto, la sua vita una freccia, il suo fine è non avere fine alcuno, la sua tattica è la non-tattica. Riesce a trattenere la calma mentre Veronica punta su di lui gli occhi acquosi, imploranti pietà, perdono per una colpa che non ha commesso.
Rax brandisce con la destra un pungolo lungo ed affusolato, con la sinistra il volto cinereo di Veronica. Le bacia la fronte e dalla bocca schiusa di lei compare, come se fosse una lingua metallica, la lama calda e rossa. Veronica non può che stramazzare al suolo, cosa che si confà ai cadaveri. Una vita non è più, una bella gioventù è stroncata. Rax appare triste quando esce da quella casa, chiudendosi la porta alle spalle.
"Mondo cane! Dove se ne sta quella carogna della Giustizia?"

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