lunedì 24 settembre 2007

ROMANZO - 3 volte morte - (parte 1, cap. 2)

Capitolo II
Anna

L’”assassino”che noi condanniamo è un fantasma:
“la persona che è capace di un assassinio”.
Ma noi tutti lo siamo.
(Friedrich Nietzsche)


- Anna, hai finito il rapporto sulla situazione del bilancio? Lo sai no, che devo consegnarlo ai capi?-
- Ehm… senta Viola, si ricorda vero, che ieri sera c’è stato il temporale, l’ha incasinata in pieno la città!-
- Cosa stai a dirmi, Anna!-
- Beh, sì… dunque, stavo lavorando al rapporto, no, ovviamente sul computer, io, quando un tuono mi bombarda la casa, deh, da far scattare il salva-vita! Lo sa bene che in casi come questi se va via la corrente… il computer si spegne…-
- … allora, sto aspettando, stai cercando di cambiar discorso, tu, con me!-
- Ma no, è che il computer s’è smorzato e ho perso tutti ‘sti file, cioè… tutto il lavoro, l’avevo quasi finito, ho sgobbato come una schiava! Su, lo sa, non mi invento brogli, io!-
L’omaccione pelato, scintillante, alza il mento e abbassa gli occhi sulla giovane Anna, la quale è sconcertata e dispiaciuta. Anna si guarda i piedi. Il suo superiore prende fiato e parla molto lentamente, calmo solo in apparenza.
- Anna, ora te ne vai in direzione, tu, ragazza mia, e gliele snoccioli le tue cazzate a quelli là!-
- Ma…-
- Subito!-
Grida l’omaccione burbero, così che il collo taurino e possente si scuote tutto, e pure il torace molle e il ventre gonfio. Anna piange mortificata, offesa, ma si alza e si avvia per la porta. Oltrepassa alcuni corridoi lunghi, dritti, illuminati lateralmente con un unico cordolo di neon, quindi si chiude dentro ad un ascensore assai capiente e pigia un tasto azzurrognolo con un numerino minuscolo: 33. I pistoni idraulici sfiatano la loro boria disserrando i battenti metallici; Anna, riavuta dal lieve mancamento per la prepotenza gravitazionale, sguscia fuori oltre gli stipiti freddi e lisci di quella gabbia. La testa claudica incerta a destra e a sinistra, poi si decide per la destra e vi fa seguire il resto del corpo. Le mancano pochi passi ad una porta nera. Anna ha vent’otto anni ed è molto bella, eppure vive con un groppo in gola, un fardello sulle spalle. Si fa sempre più accosta alla porta nera, di là della quale lucrano i capi. Bussa. Non risponde alcun “avanti!”. Bussa di nuovo e questa volta la robusta porta trema leggermente.
- Prego, entri!-
Anna spicca un balzello ed è già nella sala circolare; è tappezzata di ordini. C’è poca luce all’interno, ma i suoi occhi si abituano velocemente, come quelli dei gatti.
- Si sieda e ci dica tutto.-
I capi la fissano nascosti da occhialoni spigolosi, incastrati sulle loro scrivanie in noce. La squadrano e si compiacciono un poco alla vista della gioventù prosperosa. Neanche l’ascoltano, giacché sono già stati avvisati di tutto dal caporeparto di Anna. Perché mandarla via, però, senza lasciarla parlare un poco, senza darle l’opportunità di esprimersi, così da aver l’occasione di spogliarla con gli occhi? Anna non è alta, non è eccessivamente magra, in somma non figurerebbe come modella, ma è assai ben fatta. I capelli sono mossi e scuri, quasi neri ma con dei riflessi bordò, il viso è quello d’una bambina capricciosa che sa farsi serio in circostanze particolari come quella. Seria, dicono, è ancora più bella e, se poi una goccia di terrore le contrae il viso, diventa addirittura commovente, giacché la reale bellezza commuove. Anna veste modestamente, quasi con umiltà, e non vuole essere appariscente, sicché tenta in ogni modo di mascherare e dissimulare le sue forme, femminili in misura estrema. Al contempo però è tradita, più o meno volutamente, da alcuni vezzi estetici che rivelano l’ambiguità della sua persona: dai lobi pendono orecchini finissimi eppure lunghi quasi fino alle spalle, che rifrangono la luce scomponendola nei colori primari; al collo porta un opale che si insinua tra le curve del seno, convogliando laggiù ogni sguardo estraneo. I capi la scrutano e stanno zitti, mentre lei continua il suo resoconto intercalato dalle scuse del caso. D’un tratto il suo temperamento impetuoso s’accalora: nota distintamente come quei porcaccioni la trattengano lì solo per lambiccarsi occhi e dita con la sua figura. Ella perciò alza il braccio minuto, eppure carnoso, si volta di scatto e già la porta sbatte alle sue spalle incurvate. I capi baiscono un istante, interdetti, ma riprendono subito in mano le loro scartoffie. Anna ha deciso intanto che la sua giornata lavorativa termina qui, mica la prendono per il didietro, lei! È certa che Viola l’abbia volutamente esposta ad uno scherno gratuito, voleva umiliarla.
Sono le 11,30 e se ne esce, scura in viso, dal palazzo zeppo d’uffici vociferanti. Estrae dalla tasca dei pantaloni di lino verde le chiavi dell’auto. Con veemenza spalanca la portiera della sua fiat 500 bianca, vi salta dentro e parte sgommando. Fila via verso la campagna rada fuori Milano. Anna abita a Novara, ma lavora nel capoluogo lombardo, come molti di quelle zone. Solitamente viaggia con il treno delle 7 e 50 che ferma a Milano Porta Garibaldi, poi sale sulla metropolitana che la porta nei pressi della Bicocca, ove sta il suo ufficio. In questi giorni però affronta la tratta in macchina, giacché ha perso, anzi, le hanno rubato, il suo abbonamento ferroviario mensile. “Hail and kill!” grida nel frattempo la sua autoradio. Anna sta strillando come una matta per la furia accumulata. È rabbiosa, inveisce contro quegli… obbrobri epiteti consoni. Li sopporta come si sopporta il mal di denti, soprattutto, però, non tollera che non la ascoltino quando parla, né che “il suo culo abbia più peso delle sue parole”. Urla d’improvviso, è bell’incazzata: “Uomini, con che senno deficiente una donna può avervi partorito, era bella che fatta, ‘sta battona venduta d’Eva!”
L’auto si arresta fuori città, sotto un olmo. Anna piagnucola e bisbiglia qualcosa sul fatto che deve sempre chinare la nuca, se vuole mantenere il suo nome sulla scrivania. La macchiolina bianca sotto l’olmo riparte e scompare dietro un filare di cipressi depressi.
Che fa Anna! L’avrà persa, la testa? No! Guida veloce per sentire il vento fendere la debole carrozzeria dell’auto. Vuole provare l’ebbrezza della 500 che traballa, lanciata alla sua massima velocità, vuole assaporare lo strepitio e il dolore incisi sull’asfalto, vuole che il sangue le defluisca scorrendo a ritroso, per annebbiare il patimento. L’utilitaria si lamenta, sbuffa sconcertata i suoi 140 chilometri l’ora in un rombo rachitico, eppur soverchiante all’interno dell’abitacolo. Allora Anna ruota la manopola del volume fino in fondo, liberando la radio che borbottava inascoltata. Ora il mondo è solo vento, curve e rumore grinzoso. Le casse acustiche gemono e gracchiano sovraeccitate, i pneumatici stridono e si squagliano defessi, il vento ulula attraverso i finestrini abbassati, ma i timpani non sono mai sazi. Anna socchiude gli occhi e annusa l’aria fresca del cimento. È inebriante, ma ella non demorde, si concentra e prosegue. Finalmente sente di esistere, sente di essere inscritta nell’universo in movimento, ne sente le pulsazioni che oscillano all’unisono con lei. È al confine ultimo, all’estrema spiaggia, giacché solo sul limite si percepisce la propria essenza, si coglie il divario incolmabile tra l’essere vivi e il non esserlo, e si afferra tutto ciò che ci manca. Tuttavia ella si ricorda che “la vita è solo un virus”; c’è la logica lì a testimoniarlo. L’auto accelera ancora poiché Anna non ne ha abbastanza. La vettura, violentata lungo le strade assolate di fine estate, è un puntino bianco che fugge, infestando i campi a riposo. Non si appaga ancora, ma spingersi oltre significherebbe la morte; quindi rallenta alla vista d’un autotreno che le serra la strada.
“Le ombre danzano sul pavimento, come riflessi smunti delle foglie che compiono acrobazie al vento”, Anna è certa che le nostre vite non siano altro che questo. L’aria si arrossa per le luci posteriori dell’autotreno, obbligando Anna a fermarsi. La Fiat bofonchia moribonda. Il suo ultimo anelito di vita pare languire nel radiatore straziato, ma non cede quella e s’illumina di nuovo ad un’accelerata di Anna. È il momento di tornare a casa, è affamata.
Giunge davanti all’androne del suo palazzo a Novara, in Via Bologna, ma l’auto agonizzante si blocca, rifiutandosi di proseguire ancora quei pochi metri fino alla sicurezza del garage. Anna non ha più le energie per affrontare anche la sua manchevole 500, così la abbandona lì dov’è rimasta, a qualche spanna dal marciapiede. Arrotola su i finestrini, sdrucciola giù stanca, sfiora la portiera leggera che ruota sul suo asse e scatta nel meccanismo di chiusura. Rovista nella sua borsetta a buon mercato e ne sortisce con un folto mazzo di chiavi che non paiono servire al momento, giacché con un calcetto il primo portone, nero slavato, cede e si spalanca. Attraversa una lingua di cortile butterato e raggiunge un secondo portone a vetri, che abbisogna di una chiave. All’ombra dell’androne si struscia le scarpe sullo zerbino collettivo e continua il suo incedere svogliato su piastrelle originariamente scure e lucide, ma ora chiazzate e impolverate. Lancia un’occhiata sbilenca alla cassetta della posta: è appisolata soltanto la bolletta dell’Enel. S’arrampica su due tornanti di scale pallide, fredde, e fiuta il marciume del pianerottolo ombroso. Discerne dal mazzo una chiave lunga, senza eleganza, impedita da un capo ottagonale, con una coda senza simmetria e rozza, ed un corpicino mingherlino. L’infila nella toppa e ruota quattro angoli giro. La porta antiscasso marrone finto legno si fa di lato, permettendo ad Anna di entrare e all’aria insana d’uscire. Cerca tastoni l’interruttore della luce e, accarezzatolo, ci spinge sopra un dito. Poi spalanca le finestre di camera e bagno, quindi avvolge su le tapparelle di plastica bianca traforata. Ecco, finalmente la luce del sole subissa completamente quella elettrica, esangue.
In questo momento sfiora la mente di Anna un pensiero che si insinua sovente: “Le donne dovrebbero comandare su tutto, incontrastate. Mica hanno da essere le sguattere di nessuno, deh! Adesso il mondo è in mano a ‘sti maschietti deficienti che schiavizzano le colleghe! Dovremmo unirci come le Valchirie, come le Amazzoni, come le vestali, come le api. Agli uomini riserveremmo un tugurio, un serraglio in cui possano scannarsi liberamente, come fanno già nella vita quotidiana, ‘sti meschini, coinvolgendo anche chi si tira fuori. Li terremmo per la riproduzione, assistita, o per la copula al vezzo d’ognuna, siam mica santarelle. Bisogna che gli impediamo, però, a quei maiali, ogni possibilità politica ed economica…” e continuerebbe Anna se non fosse per la noia che anche questo proposito, se preso sul serio, le suscita. Si sfila le scarpe e ciabatta in bagno dove apre l’acqua della vasca miscelandola, in modo che non scotti, né che sia fredda. Mentre compie questi atti fastidiosi, continua il suo carosello di immaginazioni. “Le donne, cacchio, potrebbero fare tutto da sole, accoppiamento compreso, eh sì, forse è meglio. L’è un paradosso relegare i maschi a posizioni infime da letamai e poi esserne schiave quando volgiamo la sodomia, che poi finiamo che ci raggirano ancora una volta. No! Invece bisogna riuscire a far tutto da sole, altrimenti il resto è una cazzata; ci irretiscono quelli. A costo di cadere lesbiche…”
Intanto che si spoglia, Anna fantastica sugli atti sessuali delle neo-amazzoni. Gli abiti vengono piegati e appoggiati su una sedia che Anna tiene nel bagno in vista di questa unica funzione. Sta schietta in piedi nella vasca, così da mostrare per intero le sue nudità morbide, ma non c’è nessuno che possa goderne. Acqua eccepente. Vi si immerge, ma le duole, è troppo calda, risolvendosi d’aggiungerne di fresca. Si abbassa e finalmente si stende, sembra addirittura rilassarsi. Eppure ha un tormento nell’animo, le manca il contenuto della sua vita, le manca il senso di tanto prodigarsi, di tanto sgobbare, di tanto avvilimento.
No! No! Conta soltanto la forma, se ne convince. Solo questa vale, deve essere così: “Della materia se ne può fare a meno, ma della sua forma no proprio. Senza la forma il mondo non concorderebbe. Nonostante la forma sia lì a portata di mano, a dimostrazione della sua importanza sostanziale, della sua consistenza…”, Anna è sicura che qualcosa le sfugge: “forse che dietro la forma debba coesistere qualcos’altro, ciò che le manca?”
Chiude il rubinetto dell’acqua e toglie il tappo della vasca. Si leva e allunga una mano in cerca dell’accappatoio rosa. Osservando il colore che si attribuisce al femmineo, cioè il rosa, si chiede se le distinzioni sessuali non siano il mero frutto di distinzioni sociali, se i ruoli attribuiti all’uomo e alla donna non sorgano da un accordo implicito dei due sessi, o dal prevalere dell’influenza di uno. Vale a dire, “la faccenda è: se il rosa colori il mio accappatoio, e che mi piaccia così com’è, perché la società in tutto il suo evolvere ha voluto in questo modo.” A questo segno, “sono per niente scimunita: come faccio a credere a me stessa? Come credere in ciò che provo? Se siamo l’effetto, tutto intrugli, di un movimento sotterraneo generato dalla società, come un unico megaindividuo?! Ma me ne frega mica niente degli altri, se son l’effetto d’un broglio o d’un maneggio, mi intrigano i fatti miei all'opposto, la tresca che sono un atomo rincretinito di quest’individuo super, che ha scelto tutto per me e che mi imminchionisce ogni giorno convincendomi della mia santa libertà! Cane, di questo me ne frega!”.
Anna si asciuga accuratamente, poi fa squittire l’anta del mobiletto con lo specchio, ove è riposto l’asciugacapelli. Lo esamina per un momento, ma poi se ne disinteressa: “fa caldo, asciugheranno da sé”. Sono le 13,30, un’ora inconsueta per Anna. Parrebbe una giornata di vacanza, giacché solo allora ella si gusta un bagno prima di pranzo. Ma la mattinata è stata anomala. Il suo stomaco borbotta. Ad Anna non piace molto mangiar da sola, tuttavia ha voluto far di testa propria e adesso paga quel po’ di fio che deriva da una vita solitaria. Avrebbe potuto pranzare in mensa a Milano con le colleghe, ma è fuggita; sarebbe potuta stare ancora in casa dei genitori, ma ha voluto vivere in un appartamento indipendente. In vent’otto anni non se l’è mai sentita di condividere qualcosa con qualcuno, fuorché con qualche amica. Non ha voluto scegliersi un compagno, un maschio, giacché ne è sempre uscita delusa e frustrata, e s’è più volte sottratta “alle compagnie puttanesche di sole donne, perennemente in calore, destinate al fallimento”. Anna ha sufficienti prove a suo sostegno: crede d’essere asessuata, né eterosessuale, né omosessuale; tuttavia se proprio dovesse raggiungere una soluzione manichea, preferirebbe sentirsi lesbica, per principio.
Anna accende il gas e mette sul fornello una pentola, al cui interno galleggia qualcosa d’irriconoscibile. Non riesce a scacciare dalle cervella la somiglianza della sua vita smembrata con la poltiglia informe, nel calderone sotto il suo naso. Scruta il suo riflesso contorno sul coperchio della pentola: “Da quanto tempo non rido di gusto, fino a strizzarmi le lacrime dagli occhi, ‘ste avare? Da quanto, puttana Eva!” e scaglia il coperchio contro il lavabo. La sua rabbia è passeggera e futile, col che si vergogna immediatamente del suo atto, ristringendosi nel mesto sconforto. “E tanto meglio che non rido, c’è proprio niente da ridere; il mondo è sofferenza, mica risa”. Ridacchia sardonica, ma artificiosamente, giusto per infastidire i muscoli facciali. “Come sopportano gli altri ‘st’intruglio?! Non si direbbero tutti quanti in preda all’avvilimento, non li vedo accasciati sulle scrivanie che si sbranano i pollici, anche se vorrebbero farlo credere, ‘sti pirla senza spina dorsale. Nei momenti di calma, in pausa mentre si ciucciano il loro spasso, ridono, ridono!, fan finta di viver d’angosce. Dimenticano presto lo smarrimento, si divertono, i portoghesi ebrei, ogni sera è per loro un trastullo; da dove pigliano tutta ‘sta forza, ‘sta vitalità!”.
Il pranzo intanto è scotto, bruciacchia protestando. “Mi scaldo, io, come un artiglio di gatta, mi animo e sono impeto, sono iracondia, di quelle cazzute, ma al dunque m’affloscio, svuotata come una vescica dopo una pisciata”. Anna s’accorge dell’odore intenso proveniente dai fornelli. Quando, dopo istanti ebeti, trova il coraggio di inclinare lo sguardo, è ormai troppo tardi per salvare il pranzo e si rassegna allo scialbore di un panino. La farcitura è la disperazione. Dopo qualche boccone la vista s’annebbia, giacché due calde lacrime scivolano giù solcandole il viso bello. L’aria greve della stanza si fa percepire in tutta la sua spossatezza. È un po’ come soffocare lentamente, un’oppressione anomala le pesa sul petto. Un attimo!, è odore di gas, ha lasciato la manopola dei fornelli aperta. Si lancia in cucina per chiuderla. L’operazione è semplice, ma prima di portarla a compimento esita. “E se finisse tutto qui?”, ma no, si decide e blocca l’erogazione del gas, spalanca la porta del balcone e ingoia il suo panino.
Anna s’è accorta di qualcosa che l’ha tenuta in vita, nonostante la mutria verso la sua condizione di prostrazione tormentosa. Ora, sta a lei individuare quel nonsochè. Qualcosa di simile ad un diversivo, non certo paura, ma è di più ed è peggio. In vero, nemmeno uno svago, come potrebbe essere per gli altri, non un passatempo, neppure la possibilità di uno svago piacevole, proiettato nel futuro, no!, a salvarla è stato dell’altro. È stato un sentimento, anzi un sentore: qualcosa di violento, di malsano, di perverso, eppure, o proprio in quanto, ineffabile. Dunque incomprensibile, ma inestinguibile. Apparentemente.
Si ritrova a meditare sulla propria esperienza. “Provo un bisogno… ecco, d’uno scuotimento che ti cialocca da farti venire il mal di testa, fin dentro le radici del mio ben pensare. Voglio temere per me stessa concretamente, così da darci un taglio, alla mia tema inconsistente, oppure un contentino. Eppure indugio, indugio ancora abbacchiata nella mia gabbia che sa di muffo.”
Anna si sdraia sul divanetto nel salotto scarnamente arredato. Si sta assopendo, sì che i suoi pensieri si possono sciogliere liberi, senza briglie. Non le riesce d’addormentarsi perché elucubra in modo violento e le immagini che si affacciano alla mente sono brutali. “Un appagamento duraturo non l’ottieni sbattendoti il primo fighetto che incontri o sgolandoti un otre di idromele, perché è qualcosa che ti culla nelle notti insonni e ti accompagna nelle pallose ore d’ufficio, che ti sta appresso e ti tiene su… Ma da che buco la cavo fuori, una roba così, che s’assomiglia tanto alla felicità, che non lo è tuttavia, una specie di soddisfazione, direi piuttosto, che si appioppa lì dentro, tra gli occhi che vedono e il cervello che ragiona. Tra la gente mi tocca di ruscare, anzi, al di sopra della gente, io, e ‘sta mandria di mentecatti la trovo in ufficio. La soluzione si nasconde nella causa…”, al che Anna si scuote tutta eccitata, rizzandosi a sedere, gli occhi invasati, le mascelle contratte. Un’idea balzana, maledetta, le conquista la mente: “m’è venuta un’idea mica male!”.
Quando era più giovane Anna si sentiva diversa, del tutto differente dai, e indifferente ai, suoi coetanei. Questa scelta di posizione era maturata alle scuole medie, quando le sue compagne erano distratte dalla foga modaiola, dai ragazzi, dai motorini, dai Duran Duran. La semplicità del suo disgusto la tratteneva saldamente ed ella trasfigurava quella facile disarmonia in un fervore idealistico. Non sapeva nettamente cosa idealizzasse, ma le bastava mantenersi alla larga dalla corrente volgare per sentirsi elevata, migliore, ideale. Pochi anni dopo, al liceo, ebbe a rammaricarsene, giacché s’avvide che la sua posizione rimaneva unica, piuttosto che minoritaria, e che non provava più alcun godimento nel preservarsi estranea alle frivolezze giovanili. Perciò tentò la socializzazione in extremis, l’allacciamento di relazioni, la riconquista di quel che s’era negata per orgoglio. Concedersi agli altri però le era penoso, ne usciva compromessa a suoi occhi, si sviliva secondo i suoi parametri preconcetti. La notte dopo la baldoria i sensi di colpa le mordevano lo stomaco, finendo per ridurla ad una larva umana. Era tardi per adattarsi a quel mondo “di cartapesta, di vacche e montoni”, anche solo per goderne e se ne rese conto presto. Dimise ogni ulteriore tentativo d’inserimento e si lasciò naufragare, concludendo quel miserando periodo scapestrato. Passato l’esame di maturità, Anna ne usciva testarda, disincantata e cinica. Non era certo dello stato d’animo adatto per cominciare l’università e a nulla valsero i caldi consigli dei genitori, le offerte generose: ella voleva lavorare senza perder altro tempo. Fece praticantato come segretaria per qualche tempo, approdando alla fine dove lavora ora, in una casa editrice di Milano. Economicamente non ha da soffrire la fame, giacché è ben remunerata, e non osa neppure rimpiangere alcunché.
Il giorno dopo Anna è puntuale in ufficio. Si scusa con il signor Viola per la propria negligenza, ma oggi è più scollata del solito, più morbida e sinuosa. S’è messa in pace con le sue remore, usufruendo di ciò che la natura le ha offerto al fin di manipolare… Oggi tutto è diverso, Anna ha sottomesso l’orgoglio e la faccia ad un disegno più alto. Tutto si è reso lecito. Avuto il permesso di iniziare, si siede alla sua scrivania e accende il computer. Mentre lo schermo si anima, ella vi si scruta dentro. Il video si colora e rimanda lo sguardo bieco, bello di lei. Gli occhi di Anna s’incrinano propendendo verso orizzonti invisibili, suggerendo al cervello d’imboccare vie errabonde. Il suo petto si sta alzando un po’ troppo di frequente, ansima, ma si controlla, riacquista la calma e la visione del suo intento. Il signor Viola è un ometto pelato, unto a partire dal cucuzzolo luccicante fino al collo taurino, e peloso per tutto il resto. Le appendici sono corte e tozze e zoppica tentando di dissimulare. Anna ora non ha occhi che per quell’incedere claudicante.
Bandierine e finestrelle colorate danzano sullo schermo del computer, ma Anna ha altro cui pensare e non se ne cura. Si assesta sulla sedia che scricchiola come mai aveva scricchiolato. Poi s’alza.
- Anna, cosa diamine stati facendo? Anzi cosa non stai facendo! Sul tuo computer è partito il salvaschermo, stai scioperando?! Non ti si paga mica per ciondolare… Come me lo spieghi?! Sai che devi riscrivere ‘sta benedetta relazione?!-
- Sì, certo! Ha ragione, ora la finisco.-
Risponde con aria assai affabile e ritorna al suo terminale, fingendo costernazione.
Anna ne è consapevole, che il suo riscatto è senza ritorno. Oggi, però, è titubante e trascorre la giornata tergiversando. Dimostra insofferenza verso l’ambiente chiuso dell’ufficio che stenta a contenere l’effimera impazienza di lei. Così alle 17:00, chiusi i battenti del suo reparto, se ne esce felicemente. L’auto è ferma davanti casa sua da quando ieri s’è rifiutata di continuare, sicché ha rinnovato l’abbonamento del treno e della metropolitana. Oggi quindi finisce sottoterra alla fermata della linea rossa; non deve attendere più di due minuti, che i vagoni della metropolitana si affacciano come bruchi rumorosi sull’andito sotterraneo. In un attimo il metrò riparte scaraventandosi ad una velocità folle fino alla stazione. Anna per le cinque e un quarto è sul binario della linea Milano-Torino. Puntuale alle cinque e venti parte il treno che, circa per le sei, la porta a Novara. Alle sei e un quarto passa davanti alla stazione di Novara la linea tre degli autobus, così che intorno alle sette meno venti Anna rimesta nella borsetta dirimpetto casa.
Sale le scale, apre la porta, accende la luce, tutto di corsa perché ha fretta, senza un’imminenza causale, ma ha fretta. Si prepara una cena frugale, poi non guarda la televisione, ma s’infila subito a letto, supina. Deve pensare, architettare sul da farsi. Però vuole preservare il piacere emozionante dell’imprevisto, dell’improvvisazione. Anna intuisce di aver dismesso il solito scudo dell’apatia sociale, non più funzionale al suo intento, e di aver issato un nuovo vessillo nero. “Non deve mica essere solo una tregua a ‘sto mio malessere quotidiano?” si chiede, ma in realtà afferma.
Il dì seguente Anna si sveglia eccitata, dopo una notte insonne fino a poco prima dell’alba. Quando si leva dal letto la pelle le si accappona. In bagno si lava diligentemente e a fondo, poi si profuma, cosa rarissima, scrutando la pelle chiara e liscia del collo. Il tempo oggi, 7 settembre, è cambiato: ieri era estate, oggi, invece, bisogna iniziare a vestirsi come in autunno. Anna tenta di accendere la macchina arenata davanti il suo appartamento. Incredibilmente si mette in moto e sfreccia via lungo Corso Vercelli. Anna non vuole viaggiare in treno questa mattina, preferisce, ancora per oggi soltanto, l’indipendenza relativa che le offre l’automobile, e l’anonimato. È presto rispetto al suo solito: sono le sette e venti. Sorpassa il centro sul cavalcavia di fronte al tribunale, svolta in Corso Milano e lungo la statale, non l’autostrada, giunge in Milano per Via Novara. Intorno alle otto e mezza è in ufficio, benché normalmente vi arrivi solo un’ora dopo. Oggi è zelante, piena di brio; è il suo “nuovo lavoro”! Il sangue le scorre freneticamente nelle vene, tanto da pesarle. È in ansia: le mani sono un po’ sudate, sebbene siano fredde, i tendini scricchiolano sui muscoli, non usi a simili sollecitazioni.
- Anna… ciao! Che diavolo ci fai qui a quest’ora?-
L’ufficio sarebbe vuoto, se non fosse per il signor Viola che ha il ‘dovere’ di esserci, primo fra tutti, largamente in anticipo, in quanto responsabile dei dipendenti di quella sezione. Anna è a conoscenza di tutto questo. L’aria nella stanza è opprimente, benché sia mattina presto; fino ad ieri il sole ha arroventato quegli uffici con le pareti di vetro ed il calore è stato assorbito dalle strutture di cemento, che ora lo rilasciano nonostante fuori sia quasi autunno. Aria condizionata e pale da soffitto non sono ancora in funzione, giacché Viola non vuole sforare dal budget destinato all’energia elettrica. Questi adesso suda copiosamente e mostra un volto pallido, quasi emaciato. Anche Anna sente caldo, così si sfila la blusa di cotone rimanendo con una camicetta smanicata che preme sull’abbondante seno. Occhieggia intorno cercando di capire se la porta di servizio che da sulla tromba delle scale sia aperta. Sì, è aperta, sebbene le scale abbiano perso la loro funzione in virtù dell’ascensore. Finalmente risponde.
- Come sarebbe a dire, che ci faccio io qui?! Non ricorda, devo finire la relazione andata perduta!-
- Ma certo, certo, è vero! Datti una mossa allora!-
Anna non può lasciarsi sfuggire un pensiero: “Sta’ certo che mi spiccio!”. Anna si alza dalla sedia e ancheggia, come non le accade mai, nemmeno accidentalmente. E lo fa appositamente per Viola che osserva avido la movenza rara. L’uomo è interdetto, redarguirebbe persino il comportamento tanto anomalo di Anna, non lo fa tuttavia, non può farlo, i suoi occhi si sono incollati là dietro e oscillano all’oscillare del bacino corposo. È una provocazione bell’e buona! Eppure Viola è ammaliato. Si agita, suda come un otre colmo d’acqua esposto al fuoco, baisce disarmato. Se prima era pallido, ora tutto il sangue riemerge sulle gote ravvivandole, intanto che le tempie tamburellano. Un’intuizione si presenta al cervello di Viola: “siamo soli!”.
Non c’è nessun altro in ufficio, giacché mancano almeno tre quarti d’ora prima che un viso noto incomba su una di quelle scrivanie vuote. Solo la luce al neon traballa boriosa e due computer ronfano sulla polvere d’ufficio. Ogni respiro dei due colleghi è avvertito dall’altro, ogni fruscio ne è percepito. Anna s’appressa all’uscio laterale d’emergenza, disinteressatamente. Viola sta per chiedere che diamine le prende, ma si blocca. Anna oltrepassa lo stipite di legno laccato e scompare nell’ombra. Ma prima d’adombrarsi i suoi occhi baluginano in direzione del caporeparto. Ecco!, una trama sottile, ma potente è scagliata. Viola è tutto una convulsione e, allorché i suoi occhi colgono l’ammicco della femmina, si turba oltremodo. Sembra incantato, simula disinteresse, ma non ci riesce: “sta lì disarmato, ‘sta schifezza umana, in balia d’un ormone”, assicura Anna. Viola, che è un uomo tutto d’un pezzo, si trova stretto in una morsa: il colletto della sua camicia. Il suo collo flaccido, infatti, e lardoso sta collassando, si squaglia sul bordo del colletto rigido, pare boccheggiare. Allora un dito si infila tra la carne e la stoffa nel tentativo d’allentare la stretta, poi desiste e slaccia il bottone superiore. Così facendo, scopre buona parte del solco, sulla circonferenza del collo, arrossato per il contatto con la camicia inamidata. La testa è impazzita nel roteare all’inseguimento delle natiche di Anna. Ora lo sguardo è teso alla porta di servizio, bramoso si squarciarne il velo di tenebra. Un’altra morsa però attanaglia il povero Viola, mantenendolo in stallo: non può cedere in quel modo ad una provocazione, benché sia ciò che vuole, cedere, ma non così. Non subito almeno, e non adesso, durante le ore di lavoro, in ufficio poi! Come potrebbe tradire la fiducia dell’azienda che fin’ora l’ha cullato, amato, soddisfatto? Ma chi ne sarebbe il testimone? Nessuno certamente, però… Se questa trasgressione motivasse Anna ad essere più produttiva? Farebbe allora l’utile all’azienda! E se questa donna desse un motivo in più a me per lavorare con maggior proficuità?
Intanto che Viola si lambicca, Anna è sul pianerottolo tra una rampa di scale e l’altra. È lì al buio da alcuni minuti e l’uomo ancora non la segue. Decide di sfoderare un ulteriore pungolo. Riemerge un poco dall’ombra e conficca il suo sguardo più sensuale in quello acquoso ed ebete di Viola. In lui s’appicca una pira che incenerisce ogni riserva e cauterizza le ferite d’orgoglio. La mente è ottenebrata, in mano alla pulsione che tutti accomuna, pezzenti e magnati. Alla fine Viola s’avventa con gli occhi sulla prosperità di Anna. Ella sta assaporando tutta l’ebbrezza della conduzione, che tiene salda in grembo. È la rivalsa cha la muove. In questo istante non si direbbe che la sua vita possa essere stata trascorsa in un antro, per il terrore della propria bellezza, per la ripugnanza di tutto. L’astio ultore la possiede. Anna se ne accorge e se lo schiaccia stretto al petto, per non ricadere nell’uggia tetra di prima. Il livore richiede pure un battesimo.
- Venga signor Viola, venga a vedere!-
Quello non attende che la frase finisca, giacché non ha ascoltato una parola; gli è bastato il suono della voce seducente. Si solleva veloce dalla sedia rotante che cigola e, nella foga, la respinge in dietro. S’affretta e in tre balzi sta addosso ad Anna. Le afferra un lembo della camicetta tesa oltremisura e già la sbottona. Anna lo lascia fare, intanto osserva da vicino le fattezze di quell’uomo mediocre: “solamente un meschino senza dignità, una carognetta”. Viola, viscido e languido, nonostante la lustra di uomo possente è molle anche nelle movenze. “Assomiglia tanto ad un verme, ‘sta scamorza, che confonde la bocca con l’ano”. L’uomo s’appiccica ad Anna e le strofina contro la sua virilità monca, mentre le mani tozze e sguaiate scorrono sul corpo armonioso di lei. Anna pare prestarsi al gioco, ma bada bene di non toccarlo, ne avrebbe ribrezzo. Viola è sul punto di lambire anfratti sinuosi, morbidi, oltre il sottile strato della camicia, ma Anna è all’erta. Non appena quello si spinge troppo in là, quando le mani audaci si fanno troppo invadenti, Anna muta espressione. Si strappa dalle labbra la smorfia lussuriosa e vi stampa un ghigno turpe, i lineamenti graziosi s’induriscono, il palato pregusta un sapore nuovo. Ad Anna è sufficiente una spinta tutt’altro che plateale, perché l’ostilità esali dalle narici dilatate. Basta poco perché una vita misera si spezzi, e quella si spezza insieme al collo di Viola. Il corpo atticciato frana giù per le scale e scrocchia per l’ultima volta. Viola ora sta laggiù ove due rampe si congiungono e si invertono. È come un burattino inerte che guarda avanti senza vedere. Le braccia sono torte, le gambe si baciano ed il collo pare duplice. Anna s’empie la memoria di quella visione, la fa sua. “’Sta cosa, morire, sì, è una roba tanto facile, quasi quanto uccidere”.
Anna si ricompone e con una meticolosità esasperata cancella ogni traccia del suo arrivo precoce in ufficio. Sono solo le nove, sa che è presto: è meglio uscirsene e ritornare più tardi. Esce dall’edificio inosservata, anonima. S’allontana da quel cubo malefico, “che ci faccio ogni giorno, io, in ‘sta scatolaccia opaca, tra il sopore eterno del mondo, in mezzo a molluschi?”.
Si dimena come fanno i girini allorché sentono in loro una profonda dualità, che gli altri viventi non osano percepire.
“Mi sento come quei cosini vomitevoli, ‘sti figli di rane, che sguazzano nelle risaie. Ma la mia non è una sensazione precisa, è solo che sbattono la loro codina schifosetta tanto bene, che sembra ne sappiano più di noi su tutto quanto. L’hanno preso come il loro sgobbo personale, quello di dimenare ‘sta specie di pinna tutta viscida, e son studiosi, senz’altro, dei trugli delle fogne. Trascurano mica niente, non possono certo permetterselo, infatti, han preso l’abitudine si succhiare ossigeno dall’acqua ed essere buoni pure a leccarlo via dell’aria. Sì, sì, son più furbi di tutti noi. Mi son detta allora che si ha da essere come loro, è ora di svegliarsi. C’è da sapersi arrangiare, un po’ l’aria e po’ l’acqua si ciucciano. Quando occorre che ci si arrabbi, io, mi deve prendere l’odio atavico, al contrario se le cose ti spingono seguendo una certa corrente, bisogna saper sfruttare le onde. È tutto un fatto di maschere, importa soltanto saper scegliere quali in quali occasioni. ‘Ste robe te l’insegnano da nessuna parte, bisogna ricorrere ai girini…”
Anna sperimenta la diade della doppia respirazione, non c’è che dire. Assimila due tipi diversi d’aria e può rientrare nell’occultamento incognito della foschia quotidiana. Può all’occorrenza camuffarsi di nuovo, insidiosamente.
Anna intimamente è confusa ed elettrizzata. Quando la soddisfazione dell’astio cede il posto alla tensione, Anna si scopre assai fragile. Ogni sua cellula invoca la calma. Esternamente non trapela niente: nel momento in cui rientra in macchina, e lungo tutto il tragitto fino ad essa, appare sicura, trionfante. La baldanza così conquistata non può scivolarle via con un soffio. La sua indole deve prenderne atto. Non è notata da nessuno in particolare, giacché Milano è così vasta e popolosa, che un abitante non può curarsi dei visi che incrocia. Anna finirà tra il novero degli ignoti urtati per strada.
Una volta accesa l’auto, gironzola a passo d’uomo nel traffico congestionato della metropoli. Milano mostra il suo cielo grigio, plumbeo da giornata velenosa. Il sole smorto sembra parlottare dissentendo, ma le polveri tossiche lo zittiscono subito, così da suggellare con il loro marchio esiziale il colore della giornata.
Ma oggi ad Anna non importa niente delle condizioni atmosferiche: deve solo arrivare un po’ in ritardo in ufficio, affinché sia qualcun altro a rinvenire il cadavere di Viola. Sa che era inviso alla maggioranza, dunque non deve omettere il suo parere, quando sarà ora. Deve riuscire a conformarsi alla marea becera dei colleghi, così da confondersi, goccia tra le gocce. In fondo, quell’imbecille di Viola cadeva con una certa facilità!
Ecco, le nove e quaranta baluginano sul cruscotto povero della 500. Anna si decide a tornare al lavoro, anzi “ad andarci”. Parcheggia dove capita con noncuranza. Nota all’entrata un po’ più di movimento del solito, ma non mostra di allarmarsi, non è ancora ora. Sale con l’ascensore, infila il corridoio davanti a sé ed è in ufficio tra scrivanie vuote. La stanza in compenso è gremita di colleghi in piedi, dai volti scombinati. Qualcuno si passa una mano dietro il collo, qualcuno si deterge la fronte. Inizia la recita.
- Scusate il ritardo…, ma che succede? -
Alza il volto molto lentamente, solo dopo aver posato la sua roba sulla scrivania.
- State un bel po’ cupi…-
- Ascolta Anna: c’è Viola di sotto. È morto.- Frapponendo una pausa tra ogni parola, il collega non spreca suoni.
- Sembra sia caduto dalle scale!-
- Che cosa…-
Anna è veramente sorpresa.
- … che diamine mi stai dicendo? Viola morto?!-
- Sì, vieni. Abbiamo già chiamato la polizia.-
Anna ammutolisce al momento opportuno e si fa strada attraverso la calca dei colleghi stipati sul pianerottolo delle scale. Finalmente intravede l’immonda creatura contorta ai piedi della scalinata, che qualche buonanima sta tentando di coprire. Un capoufficio ora è solo un cadavere sotto un telo. Qualche singhiozzo, qualche singulto qua e là, cui Anna fa eco accalorata, preludono all’arrivo di due agenti della polizia. Sono entrambi in uniforme e, come un cuneo, trafiggono la calca sino alle scale. Sul volto di Anna regna la compunzione. La sua figura è composta, un po’ rigida di fronte all’evento tragico; si scosta al momento giusto per cedere il passo agli agenti. Entro sorride, più per esorcizzare il timore che per il divertimento. Sotto però cova l’euforia.
Gli agenti domandano qua e là le generalità e la professione del defunto e dell’interrogato, intanto annunciano che verrà steso un verbale individuale più dettagliato, per ogni dipendente. I due poliziotti in divisa chiamano altri agenti in borghese e il medico legale. La scena è molto cinematografica, pensa Anna. Gli inquirenti misurano, fotografano e adocchiano gli astanti con fare esperto. Agli occhi di Anna la recita di ogni maschera, il poliziotto con il volto di poliziotto, il contrito con i tratti del contrito, pare addirittura grottesca. Tra i colleghi aleggia un’unica supposizione dell’accaduto; nessuno si stupisce che quel “culo molle e sciancato sia scivolato giù dalle scale come un sacco di patate”. Certo, bisogna chiarire perché mai si sia avventurato sul pianerottolo delle scale, conscio del fatto di essere invalido alla gamba destra e di poter usufruire dell’ascensore. Ma può essere accaduto di tutto: che abbia sentito un rumore, o una voce, o chissà che, e abbia voluto controllare, dato il suo zelo accertato; che abbia voluto fumare una sigaretta e, giacché in ufficio è vietato, si sia risolto per la tromba delle scale, vicina, isolata e inutilizzata; che semplicemente abbia mosso qualche passo senza ragione, o per curiosità, o per un vezzo qualunque, e sia finito laggiù spiaccicato…
Da parte degli agenti non c’è apparente sbilanciamento, devono badare ad entrambe le presunzioni, incidente, omicidio, ma la tendenza è quella di evitare più assassinii possibili. Comporterebbero ricerche spasmodiche, il fiato strepitante della stampa sul collo, l’investimento di tempo e forze dietro piste per lo più svianti.
Anna capta la leggerezza della vicenda, dell’atteggiamento complessivo, così che un tremito la scuote, un tremito di eccitamento.

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