venerdì 15 giugno 2012

Introduzione - I giochi proibiti


– 1 –Da qualche parte qualcuno ha scritto che il mondo non può che essere amato fino alla feccia e senza speranzai. Il terrore che un amore del genere c’incute è difficilmente descrivibile. Siamo progettati, così pare, in modo che il nostro amore si riversi con facilità su ciò che provoca piacere, meglio ancora se lo provoca a noi e dà una speranza alla nostra vita. In prima battuta è il senso ciò che più amiamo negli oggetti d’amore. Un amore, invece, che sia speso per un mondo di scorie e, peggio, che non c’illumini neppure flebilmente della piccola e immensa speranza a cui esso s’abbevera, ecco, un amore così ci appare in tutto e per tutto sotto forma di perversione: una specie di masochismo, un godere insano del proprio dolore e del proprio tormento. Questo amore malato ci spaventa. Ha dunque tutte le qualità per essere escluso, scacciato e presto dimenticato. Tuttavia le cose non funzionano in maniera così lineare: se quel tipo d’amore, che sembra votato all’autodistruzione o perlomeno a uno spreco di sé, ci terrorizza a tal punto, non è perché lo avvertiamo come radicalmente disumano, agli antipodi del Bene e della Giustizia, cioè dell’Umanità – niente affatto; bensì perché esso si presenta a noi precisamente in maniera amabile e desiderabile. È questo che ci disturba in profondità: è il fatto cioè che la perversione, esclusa in anticipo per buona creanza dal computo delle cose buone e utili, al contrario ci attrae.
– 2 –Dunque ci troviamo alle prese con questo mondo di schifo. Uno schifo, però, che nel mentre del ribrezzo che si riverbera sulla nostra pelle e nell’incavo della nostre narici, ci rimanda lungo la curva dorsale una scossa d’euforia, di brama, di languida selvatichezza. Qualcuno ha chiamato questo fremito l’«abisso dionisiaco»ii. Amare un mondo di feccia e amarlo senza speranza... non è certo l’amore limpido del puro sentimento, né tanto meno l’amore razionale di una verità che si dispone per essere penetrata. È anzi un amore non corrisposto, radicalmente e logicamente immotivato – per lo più incondivisibile. Eppure cos’è che nell’amore puro e sentimentale, o anche nell’illuminato amor dei intellectus, ci attrae dal profondo? È sempre questo: la violenza, è essa a sobillare i nostri sensi, ad aizzare l’eccitazione profonda. Cosa c’è di più esaltante che sfregiare la purezza del sentimento, che incidere l’incontaminato, che imbrattare il candore di un foglio bianco! L’amore romantico c’infiacchisce con la sua mellifluità, ma in pari tempo ci agita a un livello assai più intimo e oscuro, insinuandoci il proposito di violentare e di stracciare una veste tanto candida da essere trasparente. D’altra parte, anche nell’amore del razionale agisce una medesima pulsione distruttrice, poiché non c’è maggior piacere che sfasciare un castello di carte alto e architettato alla perfezione. Quanto più il nostro oggetto d’amore è limpido e perfezionato, quanto più esso è costato periodi di ascesi, di autolimitazione, di fatiche, tanto più appaiono desiderabili il suo annientamento e la sua catastrofica rovina. Il suo sacrificio. Nell’amore ciò che amiamo è la possibilità del sacrificio.
– 3 –Insomma, perché mai Dio Padre prima condannò a morte i suoi figli, Adamo e Eva, poi annegò la loro prole sotto il diluvio, infine fece inchiodare ai legni incrociati il Figlio, una parte di sé, la più preziosa? Certo, per amore – e non vi è ironia in queste parole: davvero, per amore. Ma solo perché nell’amore egli amò la possibilità del sacrificio, di distruggere ciò su cui aveva investito se stesso in quanto dio. Questo Amore è Dio. Questo amore nella catastrofe, nella consumazione di quanto ci è più caro, ci avvicina agli dèi, ed è anche ciò che, segretamente, muove le nostre vite avvizzite. Siamo tutti come Adamo e Eva: alla fine, dopo averlo eretto, devastiamo il nostro paradiso e ce lo giochiamo per un frutto, anche se un giorno, da vecchi, ci racconteremo di aver agito in vista della salvezza.
– 4 –E anch’io, qui, ammiro questo foglio bianco, candido e vergine, quasi come un figlio appena nato, ma l’unico godimento che verrà da un tale paradiso in terra sarà suscitato dallo sfregio che la mia scrittura già significa. L’amore, se c’è, si dà solo per i giochi proibiti.

Novara, estate 2010
Tommaso Scappini
  • iGeorges Bataille, L’esperienza interiore.
  • iiFriedrich Nietzsche, La visione del mondo dionisiaca.

La pletora e la farsa - Dedica


Ai miei amici V., P. e F. –
che odiano i nomi e le sigle
e che quando
si tratta di fallire,
lo fanno in grande.

(t.s.)




Mai la filosofia era parsa tanto fragile,
più preziosa e più appassionante
come nel momento in cui uno sbadiglio
faceva svanire nella bocca di Bergson
l’esistenza di Dio.

(Maurice Blanchot)

giovedì 7 giugno 2012

T.J. is back, after 5 years waiting for the... sun!

domenica 30 settembre 2007

ROMANZO - 3 volte morte - (parte 1, cap. 3)

Capitolo III

(Ada)mo

Chi oggi dice: "non mi è mai successo nulla" è uno sciocco.
(Friedrich Nietzsche)
- Sai Ada, oggi in ditta abbiamo concluso degli ottimi affari: siamo riusciti ad accorpare la Nifil, finalmente, e ora insieme alla Decox forma un nuovo polo influente; siamo, magari, diventati anche i più grandi dell’Italia settentrionale, mica male, eh.-
- Capisco, bene Adamo! Ma dovrai lavorare di più, ne’?-
- Beh, in un certo senso…-
- Come, tesoro!-
- Sì, mi tocca di lavorare un po’ di più, i primi tempi, ma a casa con ‘sto computer. Poi, vedrai, una volta sistemate le beghe iniziali, mi normalizzerò, io, il tran tran. Sostanzialmente cambia mica niente nelle nostre abitudini, saremo solo più ricchi ed salirò di prestigio, io.-
- Bravo sei, Adamo, il mio orgoglio! Maria, allora ce la mandiamo alla Bocconi, ‘sta fiòla?

martedì 25 settembre 2007

FILOSOFIA 1 - Dare la morte in dono

Il tragitto del “donare la morte” (J. Derrida, Donare La Morte[1]) si srotola in tre tappe almeno, ovvero tre letture: quella di Patočka, di Kierkegaard e di Kafka, sottese dal racconto del sacrificio di Isacco nel Genesi che ci conduce, di segreto in segreto, dalla responsabilità, al tremore, alla letteratura, sempre trattenendo in filigrana il rapporto impossibile del padre col figlio, fino alla morte d(on)ata e al perdono accordato.

1. Responsabilità e segreto: Derrida legge Patočka.Partiamo con la lettura di Patočka[2]. Nella sua distinzione tra “responsabilità” e “demonico” si pongono fin da subito i tasselli fondamentali per il percorso derridiano. Il demonico, infatti, porta all’irresponsabilità, perché non vi è ancora un’ingiunzione a rispondere di sé davanti all’altro. Teniamo a mente, poi, che il demonico è connesso col desiderio sessuale, scompaginando il limite tra uomo e animale. La religione, al contrario, è responsabilità sottratta al segreto del mistero demonico. È già chiaro che per Patočka la storia della responsabilità si confonde con una storia della religione.
In questa storia il divenir-resposanbile, ossia il divenir-storico, si lega infine all’evento cristiano di un segreto: il mysterium tremendum che è il tremore dell’uomo nell’esperienza del dono sacrificale. Questo segreto dà il cambio, però, ad un altro segreto: il segreto del mysterium tremendum (3) “rimuove” il platonismo (2), il quale aveva “incorporato” il segreto del mistero orgiastico (1), dal quale Platone aveva già tentato di liberare la filosofia.

Dialogo 1 - Il tempo

Che fai stasera?
Quel che s’ha da fare.
E che è ciò?
Collezionare attimi.
Ma gli attimi…
sì gli attimi, che divengono zuppi di nebbia…
…di nebbia!
Di nebbia perché la nebbia dilata e gli attimi è ciò che va dilatato.

Dunque è questo che farai stasera?
È questo.

(Silenzio)

Non ti comprendo.
Collezioni attimi?
No, non ti comprendo.
Gli attimi non esistono: inzupparli permette loro d’esistere.
Ma che dici mai?
Gli attimi non esistono: ogni indugio li… fa essere.
Cos’è l’indugio?
È la remora, un far del tempo un temporeggiare.
Io lo chiamo perder tempo!
Dici bene, ma non sai fino a che punto.

lunedì 24 settembre 2007

Poesia 2 - Pharmakoi

Noi, infetti, vogliam l’eterno nulla
perché viviamo senza nutrimento.
Si tengan i più la speme lor tetra
da che non ci tangon le felicità
dissennate di quei orgoglio di sé.

Noi, sconfitti, rivogliam l’atra bile
perché sazia meglio del vostro cibo.
Godan i civili di gioie stinte
dopo aver scacciato i barbari,
noi caparbi sprezzanti delle leggi.

Noi più non calcherem le rette vie
che menano entro la città vostra,
né quel cosmo ci tornirà d’ordine,
ma ordiremo congiure per sempre
e filtri sui vostri calici vuoti.

Siamo figli bastardi senza luogo,
nemici che avete allevato;
per noi soli si reca il contagio
della malattia che accudiamo,
infetti e sconfitti v’inoculiamo

il veleno, il dubbio, la follia.