domenica 30 settembre 2007

ROMANZO - 3 volte morte - (parte 1, cap. 3)

Capitolo III

(Ada)mo

Chi oggi dice: "non mi è mai successo nulla" è uno sciocco.
(Friedrich Nietzsche)
- Sai Ada, oggi in ditta abbiamo concluso degli ottimi affari: siamo riusciti ad accorpare la Nifil, finalmente, e ora insieme alla Decox forma un nuovo polo influente; siamo, magari, diventati anche i più grandi dell’Italia settentrionale, mica male, eh.-
- Capisco, bene Adamo! Ma dovrai lavorare di più, ne’?-
- Beh, in un certo senso…-
- Come, tesoro!-
- Sì, mi tocca di lavorare un po’ di più, i primi tempi, ma a casa con ‘sto computer. Poi, vedrai, una volta sistemate le beghe iniziali, mi normalizzerò, io, il tran tran. Sostanzialmente cambia mica niente nelle nostre abitudini, saremo solo più ricchi ed salirò di prestigio, io.-
- Bravo sei, Adamo, il mio orgoglio! Maria, allora ce la mandiamo alla Bocconi, ‘sta fiòla?

martedì 25 settembre 2007

FILOSOFIA 1 - Dare la morte in dono

Il tragitto del “donare la morte” (J. Derrida, Donare La Morte[1]) si srotola in tre tappe almeno, ovvero tre letture: quella di Patočka, di Kierkegaard e di Kafka, sottese dal racconto del sacrificio di Isacco nel Genesi che ci conduce, di segreto in segreto, dalla responsabilità, al tremore, alla letteratura, sempre trattenendo in filigrana il rapporto impossibile del padre col figlio, fino alla morte d(on)ata e al perdono accordato.

1. Responsabilità e segreto: Derrida legge Patočka.Partiamo con la lettura di Patočka[2]. Nella sua distinzione tra “responsabilità” e “demonico” si pongono fin da subito i tasselli fondamentali per il percorso derridiano. Il demonico, infatti, porta all’irresponsabilità, perché non vi è ancora un’ingiunzione a rispondere di sé davanti all’altro. Teniamo a mente, poi, che il demonico è connesso col desiderio sessuale, scompaginando il limite tra uomo e animale. La religione, al contrario, è responsabilità sottratta al segreto del mistero demonico. È già chiaro che per Patočka la storia della responsabilità si confonde con una storia della religione.
In questa storia il divenir-resposanbile, ossia il divenir-storico, si lega infine all’evento cristiano di un segreto: il mysterium tremendum che è il tremore dell’uomo nell’esperienza del dono sacrificale. Questo segreto dà il cambio, però, ad un altro segreto: il segreto del mysterium tremendum (3) “rimuove” il platonismo (2), il quale aveva “incorporato” il segreto del mistero orgiastico (1), dal quale Platone aveva già tentato di liberare la filosofia.

Dialogo 1 - Il tempo

Che fai stasera?
Quel che s’ha da fare.
E che è ciò?
Collezionare attimi.
Ma gli attimi…
sì gli attimi, che divengono zuppi di nebbia…
…di nebbia!
Di nebbia perché la nebbia dilata e gli attimi è ciò che va dilatato.

Dunque è questo che farai stasera?
È questo.

(Silenzio)

Non ti comprendo.
Collezioni attimi?
No, non ti comprendo.
Gli attimi non esistono: inzupparli permette loro d’esistere.
Ma che dici mai?
Gli attimi non esistono: ogni indugio li… fa essere.
Cos’è l’indugio?
È la remora, un far del tempo un temporeggiare.
Io lo chiamo perder tempo!
Dici bene, ma non sai fino a che punto.

lunedì 24 settembre 2007

Poesia 2 - Pharmakoi

Noi, infetti, vogliam l’eterno nulla
perché viviamo senza nutrimento.
Si tengan i più la speme lor tetra
da che non ci tangon le felicità
dissennate di quei orgoglio di sé.

Noi, sconfitti, rivogliam l’atra bile
perché sazia meglio del vostro cibo.
Godan i civili di gioie stinte
dopo aver scacciato i barbari,
noi caparbi sprezzanti delle leggi.

Noi più non calcherem le rette vie
che menano entro la città vostra,
né quel cosmo ci tornirà d’ordine,
ma ordiremo congiure per sempre
e filtri sui vostri calici vuoti.

Siamo figli bastardi senza luogo,
nemici che avete allevato;
per noi soli si reca il contagio
della malattia che accudiamo,
infetti e sconfitti v’inoculiamo

il veleno, il dubbio, la follia.

ROMANZO - 3 volte morte - (parte 1, cap. 2)

Capitolo II
Anna

L’”assassino”che noi condanniamo è un fantasma:
“la persona che è capace di un assassinio”.
Ma noi tutti lo siamo.
(Friedrich Nietzsche)


- Anna, hai finito il rapporto sulla situazione del bilancio? Lo sai no, che devo consegnarlo ai capi?-
- Ehm… senta Viola, si ricorda vero, che ieri sera c’è stato il temporale, l’ha incasinata in pieno la città!-
- Cosa stai a dirmi, Anna!-
- Beh, sì… dunque, stavo lavorando al rapporto, no, ovviamente sul computer, io, quando un tuono mi bombarda la casa, deh, da far scattare il salva-vita! Lo sa bene che in casi come questi se va via la corrente… il computer si spegne…-
- … allora, sto aspettando, stai cercando di cambiar discorso, tu, con me!-
- Ma no, è che il computer s’è smorzato e ho perso tutti ‘sti file, cioè… tutto il lavoro, l’avevo quasi finito, ho sgobbato come una schiava! Su, lo sa, non mi invento brogli, io!-
L’omaccione pelato, scintillante, alza il mento e abbassa gli occhi sulla giovane Anna, la quale è sconcertata e dispiaciuta. Anna si guarda i piedi. Il suo superiore prende fiato e parla molto lentamente, calmo solo in apparenza.
- Anna, ora te ne vai in direzione, tu, ragazza mia, e gliele snoccioli le tue cazzate a quelli là!-
- Ma…-
- Subito!-
Grida l’omaccione burbero, così che il collo taurino e possente si scuote tutto, e pure il torace molle e il ventre gonfio. Anna piange mortificata, offesa, ma si alza e si avvia per la porta. Oltrepassa alcuni corridoi lunghi, dritti, illuminati lateralmente con un unico cordolo di neon, quindi si chiude dentro ad un ascensore assai capiente e pigia un tasto azzurrognolo con un numerino minuscolo: 33. I pistoni idraulici sfiatano la loro boria disserrando i battenti metallici; Anna, riavuta dal lieve mancamento per la prepotenza gravitazionale, sguscia fuori oltre gli stipiti freddi e lisci di quella gabbia. La testa claudica incerta a destra e a sinistra, poi si decide per la destra e vi fa seguire il resto del corpo. Le mancano pochi passi ad una porta nera. Anna ha vent’otto anni ed è molto bella, eppure vive con un groppo in gola, un fardello sulle spalle. Si fa sempre più accosta alla porta nera, di là della quale lucrano i capi. Bussa. Non risponde alcun “avanti!”. Bussa di nuovo e questa volta la robusta porta trema leggermente.
- Prego, entri!-
Anna spicca un balzello ed è già nella sala circolare; è tappezzata di ordini. C’è poca luce all’interno, ma i suoi occhi si abituano velocemente, come quelli dei gatti.
- Si sieda e ci dica tutto.-
I capi la fissano nascosti da occhialoni spigolosi, incastrati sulle loro scrivanie in noce. La squadrano e si compiacciono un poco alla vista della gioventù prosperosa. Neanche l’ascoltano, giacché sono già stati avvisati di tutto dal caporeparto di Anna. Perché mandarla via, però, senza lasciarla parlare un poco, senza darle l’opportunità di esprimersi, così da aver l’occasione di spogliarla con gli occhi? Anna non è alta, non è eccessivamente magra, in somma non figurerebbe come modella, ma è assai ben fatta. I capelli sono mossi e scuri, quasi neri ma con dei riflessi bordò, il viso è quello d’una bambina capricciosa che sa farsi serio in circostanze particolari come quella. Seria, dicono, è ancora più bella e, se poi una goccia di terrore le contrae il viso, diventa addirittura commovente, giacché la reale bellezza commuove. Anna veste modestamente, quasi con umiltà, e non vuole essere appariscente, sicché tenta in ogni modo di mascherare e dissimulare le sue forme, femminili in misura estrema. Al contempo però è tradita, più o meno volutamente, da alcuni vezzi estetici che rivelano l’ambiguità della sua persona: dai lobi pendono orecchini finissimi eppure lunghi quasi fino alle spalle, che rifrangono la luce scomponendola nei colori primari; al collo porta un opale che si insinua tra le curve del seno, convogliando laggiù ogni sguardo estraneo. I capi la scrutano e stanno zitti, mentre lei continua il suo resoconto intercalato dalle scuse del caso. D’un tratto il suo temperamento impetuoso s’accalora: nota distintamente come quei porcaccioni la trattengano lì solo per lambiccarsi occhi e dita con la sua figura. Ella perciò alza il braccio minuto, eppure carnoso, si volta di scatto e già la porta sbatte alle sue spalle incurvate. I capi baiscono un istante, interdetti, ma riprendono subito in mano le loro scartoffie. Anna ha deciso intanto che la sua giornata lavorativa termina qui, mica la prendono per il didietro, lei! È certa che Viola l’abbia volutamente esposta ad uno scherno gratuito, voleva umiliarla.
Sono le 11,30 e se ne esce, scura in viso, dal palazzo zeppo d’uffici vociferanti. Estrae dalla tasca dei pantaloni di lino verde le chiavi dell’auto. Con veemenza spalanca la portiera della sua fiat 500 bianca, vi salta dentro e parte sgommando. Fila via verso la campagna rada fuori Milano. Anna abita a Novara, ma lavora nel capoluogo lombardo, come molti di quelle zone. Solitamente viaggia con il treno delle 7 e 50 che ferma a Milano Porta Garibaldi, poi sale sulla metropolitana che la porta nei pressi della Bicocca, ove sta il suo ufficio. In questi giorni però affronta la tratta in macchina, giacché ha perso, anzi, le hanno rubato, il suo abbonamento ferroviario mensile. “Hail and kill!” grida nel frattempo la sua autoradio. Anna sta strillando come una matta per la furia accumulata. È rabbiosa, inveisce contro quegli… obbrobri epiteti consoni. Li sopporta come si sopporta il mal di denti, soprattutto, però, non tollera che non la ascoltino quando parla, né che “il suo culo abbia più peso delle sue parole”. Urla d’improvviso, è bell’incazzata: “Uomini, con che senno deficiente una donna può avervi partorito, era bella che fatta, ‘sta battona venduta d’Eva!”
L’auto si arresta fuori città, sotto un olmo. Anna piagnucola e bisbiglia qualcosa sul fatto che deve sempre chinare la nuca, se vuole mantenere il suo nome sulla scrivania. La macchiolina bianca sotto l’olmo riparte e scompare dietro un filare di cipressi depressi.
Che fa Anna! L’avrà persa, la testa? No! Guida veloce per sentire il vento fendere la debole carrozzeria dell’auto. Vuole provare l’ebbrezza della 500 che traballa, lanciata alla sua massima velocità, vuole assaporare lo strepitio e il dolore incisi sull’asfalto, vuole che il sangue le defluisca scorrendo a ritroso, per annebbiare il patimento. L’utilitaria si lamenta, sbuffa sconcertata i suoi 140 chilometri l’ora in un rombo rachitico, eppur soverchiante all’interno dell’abitacolo. Allora Anna ruota la manopola del volume fino in fondo, liberando la radio che borbottava inascoltata. Ora il mondo è solo vento, curve e rumore grinzoso. Le casse acustiche gemono e gracchiano sovraeccitate, i pneumatici stridono e si squagliano defessi, il vento ulula attraverso i finestrini abbassati, ma i timpani non sono mai sazi. Anna socchiude gli occhi e annusa l’aria fresca del cimento. È inebriante, ma ella non demorde, si concentra e prosegue. Finalmente sente di esistere, sente di essere inscritta nell’universo in movimento, ne sente le pulsazioni che oscillano all’unisono con lei. È al confine ultimo, all’estrema spiaggia, giacché solo sul limite si percepisce la propria essenza, si coglie il divario incolmabile tra l’essere vivi e il non esserlo, e si afferra tutto ciò che ci manca. Tuttavia ella si ricorda che “la vita è solo un virus”; c’è la logica lì a testimoniarlo. L’auto accelera ancora poiché Anna non ne ha abbastanza. La vettura, violentata lungo le strade assolate di fine estate, è un puntino bianco che fugge, infestando i campi a riposo. Non si appaga ancora, ma spingersi oltre significherebbe la morte; quindi rallenta alla vista d’un autotreno che le serra la strada.
“Le ombre danzano sul pavimento, come riflessi smunti delle foglie che compiono acrobazie al vento”, Anna è certa che le nostre vite non siano altro che questo. L’aria si arrossa per le luci posteriori dell’autotreno, obbligando Anna a fermarsi. La Fiat bofonchia moribonda. Il suo ultimo anelito di vita pare languire nel radiatore straziato, ma non cede quella e s’illumina di nuovo ad un’accelerata di Anna. È il momento di tornare a casa, è affamata.
Giunge davanti all’androne del suo palazzo a Novara, in Via Bologna, ma l’auto agonizzante si blocca, rifiutandosi di proseguire ancora quei pochi metri fino alla sicurezza del garage. Anna non ha più le energie per affrontare anche la sua manchevole 500, così la abbandona lì dov’è rimasta, a qualche spanna dal marciapiede. Arrotola su i finestrini, sdrucciola giù stanca, sfiora la portiera leggera che ruota sul suo asse e scatta nel meccanismo di chiusura. Rovista nella sua borsetta a buon mercato e ne sortisce con un folto mazzo di chiavi che non paiono servire al momento, giacché con un calcetto il primo portone, nero slavato, cede e si spalanca. Attraversa una lingua di cortile butterato e raggiunge un secondo portone a vetri, che abbisogna di una chiave. All’ombra dell’androne si struscia le scarpe sullo zerbino collettivo e continua il suo incedere svogliato su piastrelle originariamente scure e lucide, ma ora chiazzate e impolverate. Lancia un’occhiata sbilenca alla cassetta della posta: è appisolata soltanto la bolletta dell’Enel. S’arrampica su due tornanti di scale pallide, fredde, e fiuta il marciume del pianerottolo ombroso. Discerne dal mazzo una chiave lunga, senza eleganza, impedita da un capo ottagonale, con una coda senza simmetria e rozza, ed un corpicino mingherlino. L’infila nella toppa e ruota quattro angoli giro. La porta antiscasso marrone finto legno si fa di lato, permettendo ad Anna di entrare e all’aria insana d’uscire. Cerca tastoni l’interruttore della luce e, accarezzatolo, ci spinge sopra un dito. Poi spalanca le finestre di camera e bagno, quindi avvolge su le tapparelle di plastica bianca traforata. Ecco, finalmente la luce del sole subissa completamente quella elettrica, esangue.
In questo momento sfiora la mente di Anna un pensiero che si insinua sovente: “Le donne dovrebbero comandare su tutto, incontrastate. Mica hanno da essere le sguattere di nessuno, deh! Adesso il mondo è in mano a ‘sti maschietti deficienti che schiavizzano le colleghe! Dovremmo unirci come le Valchirie, come le Amazzoni, come le vestali, come le api. Agli uomini riserveremmo un tugurio, un serraglio in cui possano scannarsi liberamente, come fanno già nella vita quotidiana, ‘sti meschini, coinvolgendo anche chi si tira fuori. Li terremmo per la riproduzione, assistita, o per la copula al vezzo d’ognuna, siam mica santarelle. Bisogna che gli impediamo, però, a quei maiali, ogni possibilità politica ed economica…” e continuerebbe Anna se non fosse per la noia che anche questo proposito, se preso sul serio, le suscita. Si sfila le scarpe e ciabatta in bagno dove apre l’acqua della vasca miscelandola, in modo che non scotti, né che sia fredda. Mentre compie questi atti fastidiosi, continua il suo carosello di immaginazioni. “Le donne, cacchio, potrebbero fare tutto da sole, accoppiamento compreso, eh sì, forse è meglio. L’è un paradosso relegare i maschi a posizioni infime da letamai e poi esserne schiave quando volgiamo la sodomia, che poi finiamo che ci raggirano ancora una volta. No! Invece bisogna riuscire a far tutto da sole, altrimenti il resto è una cazzata; ci irretiscono quelli. A costo di cadere lesbiche…”
Intanto che si spoglia, Anna fantastica sugli atti sessuali delle neo-amazzoni. Gli abiti vengono piegati e appoggiati su una sedia che Anna tiene nel bagno in vista di questa unica funzione. Sta schietta in piedi nella vasca, così da mostrare per intero le sue nudità morbide, ma non c’è nessuno che possa goderne. Acqua eccepente. Vi si immerge, ma le duole, è troppo calda, risolvendosi d’aggiungerne di fresca. Si abbassa e finalmente si stende, sembra addirittura rilassarsi. Eppure ha un tormento nell’animo, le manca il contenuto della sua vita, le manca il senso di tanto prodigarsi, di tanto sgobbare, di tanto avvilimento.
No! No! Conta soltanto la forma, se ne convince. Solo questa vale, deve essere così: “Della materia se ne può fare a meno, ma della sua forma no proprio. Senza la forma il mondo non concorderebbe. Nonostante la forma sia lì a portata di mano, a dimostrazione della sua importanza sostanziale, della sua consistenza…”, Anna è sicura che qualcosa le sfugge: “forse che dietro la forma debba coesistere qualcos’altro, ciò che le manca?”
Chiude il rubinetto dell’acqua e toglie il tappo della vasca. Si leva e allunga una mano in cerca dell’accappatoio rosa. Osservando il colore che si attribuisce al femmineo, cioè il rosa, si chiede se le distinzioni sessuali non siano il mero frutto di distinzioni sociali, se i ruoli attribuiti all’uomo e alla donna non sorgano da un accordo implicito dei due sessi, o dal prevalere dell’influenza di uno. Vale a dire, “la faccenda è: se il rosa colori il mio accappatoio, e che mi piaccia così com’è, perché la società in tutto il suo evolvere ha voluto in questo modo.” A questo segno, “sono per niente scimunita: come faccio a credere a me stessa? Come credere in ciò che provo? Se siamo l’effetto, tutto intrugli, di un movimento sotterraneo generato dalla società, come un unico megaindividuo?! Ma me ne frega mica niente degli altri, se son l’effetto d’un broglio o d’un maneggio, mi intrigano i fatti miei all'opposto, la tresca che sono un atomo rincretinito di quest’individuo super, che ha scelto tutto per me e che mi imminchionisce ogni giorno convincendomi della mia santa libertà! Cane, di questo me ne frega!”.
Anna si asciuga accuratamente, poi fa squittire l’anta del mobiletto con lo specchio, ove è riposto l’asciugacapelli. Lo esamina per un momento, ma poi se ne disinteressa: “fa caldo, asciugheranno da sé”. Sono le 13,30, un’ora inconsueta per Anna. Parrebbe una giornata di vacanza, giacché solo allora ella si gusta un bagno prima di pranzo. Ma la mattinata è stata anomala. Il suo stomaco borbotta. Ad Anna non piace molto mangiar da sola, tuttavia ha voluto far di testa propria e adesso paga quel po’ di fio che deriva da una vita solitaria. Avrebbe potuto pranzare in mensa a Milano con le colleghe, ma è fuggita; sarebbe potuta stare ancora in casa dei genitori, ma ha voluto vivere in un appartamento indipendente. In vent’otto anni non se l’è mai sentita di condividere qualcosa con qualcuno, fuorché con qualche amica. Non ha voluto scegliersi un compagno, un maschio, giacché ne è sempre uscita delusa e frustrata, e s’è più volte sottratta “alle compagnie puttanesche di sole donne, perennemente in calore, destinate al fallimento”. Anna ha sufficienti prove a suo sostegno: crede d’essere asessuata, né eterosessuale, né omosessuale; tuttavia se proprio dovesse raggiungere una soluzione manichea, preferirebbe sentirsi lesbica, per principio.
Anna accende il gas e mette sul fornello una pentola, al cui interno galleggia qualcosa d’irriconoscibile. Non riesce a scacciare dalle cervella la somiglianza della sua vita smembrata con la poltiglia informe, nel calderone sotto il suo naso. Scruta il suo riflesso contorno sul coperchio della pentola: “Da quanto tempo non rido di gusto, fino a strizzarmi le lacrime dagli occhi, ‘ste avare? Da quanto, puttana Eva!” e scaglia il coperchio contro il lavabo. La sua rabbia è passeggera e futile, col che si vergogna immediatamente del suo atto, ristringendosi nel mesto sconforto. “E tanto meglio che non rido, c’è proprio niente da ridere; il mondo è sofferenza, mica risa”. Ridacchia sardonica, ma artificiosamente, giusto per infastidire i muscoli facciali. “Come sopportano gli altri ‘st’intruglio?! Non si direbbero tutti quanti in preda all’avvilimento, non li vedo accasciati sulle scrivanie che si sbranano i pollici, anche se vorrebbero farlo credere, ‘sti pirla senza spina dorsale. Nei momenti di calma, in pausa mentre si ciucciano il loro spasso, ridono, ridono!, fan finta di viver d’angosce. Dimenticano presto lo smarrimento, si divertono, i portoghesi ebrei, ogni sera è per loro un trastullo; da dove pigliano tutta ‘sta forza, ‘sta vitalità!”.
Il pranzo intanto è scotto, bruciacchia protestando. “Mi scaldo, io, come un artiglio di gatta, mi animo e sono impeto, sono iracondia, di quelle cazzute, ma al dunque m’affloscio, svuotata come una vescica dopo una pisciata”. Anna s’accorge dell’odore intenso proveniente dai fornelli. Quando, dopo istanti ebeti, trova il coraggio di inclinare lo sguardo, è ormai troppo tardi per salvare il pranzo e si rassegna allo scialbore di un panino. La farcitura è la disperazione. Dopo qualche boccone la vista s’annebbia, giacché due calde lacrime scivolano giù solcandole il viso bello. L’aria greve della stanza si fa percepire in tutta la sua spossatezza. È un po’ come soffocare lentamente, un’oppressione anomala le pesa sul petto. Un attimo!, è odore di gas, ha lasciato la manopola dei fornelli aperta. Si lancia in cucina per chiuderla. L’operazione è semplice, ma prima di portarla a compimento esita. “E se finisse tutto qui?”, ma no, si decide e blocca l’erogazione del gas, spalanca la porta del balcone e ingoia il suo panino.
Anna s’è accorta di qualcosa che l’ha tenuta in vita, nonostante la mutria verso la sua condizione di prostrazione tormentosa. Ora, sta a lei individuare quel nonsochè. Qualcosa di simile ad un diversivo, non certo paura, ma è di più ed è peggio. In vero, nemmeno uno svago, come potrebbe essere per gli altri, non un passatempo, neppure la possibilità di uno svago piacevole, proiettato nel futuro, no!, a salvarla è stato dell’altro. È stato un sentimento, anzi un sentore: qualcosa di violento, di malsano, di perverso, eppure, o proprio in quanto, ineffabile. Dunque incomprensibile, ma inestinguibile. Apparentemente.
Si ritrova a meditare sulla propria esperienza. “Provo un bisogno… ecco, d’uno scuotimento che ti cialocca da farti venire il mal di testa, fin dentro le radici del mio ben pensare. Voglio temere per me stessa concretamente, così da darci un taglio, alla mia tema inconsistente, oppure un contentino. Eppure indugio, indugio ancora abbacchiata nella mia gabbia che sa di muffo.”
Anna si sdraia sul divanetto nel salotto scarnamente arredato. Si sta assopendo, sì che i suoi pensieri si possono sciogliere liberi, senza briglie. Non le riesce d’addormentarsi perché elucubra in modo violento e le immagini che si affacciano alla mente sono brutali. “Un appagamento duraturo non l’ottieni sbattendoti il primo fighetto che incontri o sgolandoti un otre di idromele, perché è qualcosa che ti culla nelle notti insonni e ti accompagna nelle pallose ore d’ufficio, che ti sta appresso e ti tiene su… Ma da che buco la cavo fuori, una roba così, che s’assomiglia tanto alla felicità, che non lo è tuttavia, una specie di soddisfazione, direi piuttosto, che si appioppa lì dentro, tra gli occhi che vedono e il cervello che ragiona. Tra la gente mi tocca di ruscare, anzi, al di sopra della gente, io, e ‘sta mandria di mentecatti la trovo in ufficio. La soluzione si nasconde nella causa…”, al che Anna si scuote tutta eccitata, rizzandosi a sedere, gli occhi invasati, le mascelle contratte. Un’idea balzana, maledetta, le conquista la mente: “m’è venuta un’idea mica male!”.
Quando era più giovane Anna si sentiva diversa, del tutto differente dai, e indifferente ai, suoi coetanei. Questa scelta di posizione era maturata alle scuole medie, quando le sue compagne erano distratte dalla foga modaiola, dai ragazzi, dai motorini, dai Duran Duran. La semplicità del suo disgusto la tratteneva saldamente ed ella trasfigurava quella facile disarmonia in un fervore idealistico. Non sapeva nettamente cosa idealizzasse, ma le bastava mantenersi alla larga dalla corrente volgare per sentirsi elevata, migliore, ideale. Pochi anni dopo, al liceo, ebbe a rammaricarsene, giacché s’avvide che la sua posizione rimaneva unica, piuttosto che minoritaria, e che non provava più alcun godimento nel preservarsi estranea alle frivolezze giovanili. Perciò tentò la socializzazione in extremis, l’allacciamento di relazioni, la riconquista di quel che s’era negata per orgoglio. Concedersi agli altri però le era penoso, ne usciva compromessa a suoi occhi, si sviliva secondo i suoi parametri preconcetti. La notte dopo la baldoria i sensi di colpa le mordevano lo stomaco, finendo per ridurla ad una larva umana. Era tardi per adattarsi a quel mondo “di cartapesta, di vacche e montoni”, anche solo per goderne e se ne rese conto presto. Dimise ogni ulteriore tentativo d’inserimento e si lasciò naufragare, concludendo quel miserando periodo scapestrato. Passato l’esame di maturità, Anna ne usciva testarda, disincantata e cinica. Non era certo dello stato d’animo adatto per cominciare l’università e a nulla valsero i caldi consigli dei genitori, le offerte generose: ella voleva lavorare senza perder altro tempo. Fece praticantato come segretaria per qualche tempo, approdando alla fine dove lavora ora, in una casa editrice di Milano. Economicamente non ha da soffrire la fame, giacché è ben remunerata, e non osa neppure rimpiangere alcunché.
Il giorno dopo Anna è puntuale in ufficio. Si scusa con il signor Viola per la propria negligenza, ma oggi è più scollata del solito, più morbida e sinuosa. S’è messa in pace con le sue remore, usufruendo di ciò che la natura le ha offerto al fin di manipolare… Oggi tutto è diverso, Anna ha sottomesso l’orgoglio e la faccia ad un disegno più alto. Tutto si è reso lecito. Avuto il permesso di iniziare, si siede alla sua scrivania e accende il computer. Mentre lo schermo si anima, ella vi si scruta dentro. Il video si colora e rimanda lo sguardo bieco, bello di lei. Gli occhi di Anna s’incrinano propendendo verso orizzonti invisibili, suggerendo al cervello d’imboccare vie errabonde. Il suo petto si sta alzando un po’ troppo di frequente, ansima, ma si controlla, riacquista la calma e la visione del suo intento. Il signor Viola è un ometto pelato, unto a partire dal cucuzzolo luccicante fino al collo taurino, e peloso per tutto il resto. Le appendici sono corte e tozze e zoppica tentando di dissimulare. Anna ora non ha occhi che per quell’incedere claudicante.
Bandierine e finestrelle colorate danzano sullo schermo del computer, ma Anna ha altro cui pensare e non se ne cura. Si assesta sulla sedia che scricchiola come mai aveva scricchiolato. Poi s’alza.
- Anna, cosa diamine stati facendo? Anzi cosa non stai facendo! Sul tuo computer è partito il salvaschermo, stai scioperando?! Non ti si paga mica per ciondolare… Come me lo spieghi?! Sai che devi riscrivere ‘sta benedetta relazione?!-
- Sì, certo! Ha ragione, ora la finisco.-
Risponde con aria assai affabile e ritorna al suo terminale, fingendo costernazione.
Anna ne è consapevole, che il suo riscatto è senza ritorno. Oggi, però, è titubante e trascorre la giornata tergiversando. Dimostra insofferenza verso l’ambiente chiuso dell’ufficio che stenta a contenere l’effimera impazienza di lei. Così alle 17:00, chiusi i battenti del suo reparto, se ne esce felicemente. L’auto è ferma davanti casa sua da quando ieri s’è rifiutata di continuare, sicché ha rinnovato l’abbonamento del treno e della metropolitana. Oggi quindi finisce sottoterra alla fermata della linea rossa; non deve attendere più di due minuti, che i vagoni della metropolitana si affacciano come bruchi rumorosi sull’andito sotterraneo. In un attimo il metrò riparte scaraventandosi ad una velocità folle fino alla stazione. Anna per le cinque e un quarto è sul binario della linea Milano-Torino. Puntuale alle cinque e venti parte il treno che, circa per le sei, la porta a Novara. Alle sei e un quarto passa davanti alla stazione di Novara la linea tre degli autobus, così che intorno alle sette meno venti Anna rimesta nella borsetta dirimpetto casa.
Sale le scale, apre la porta, accende la luce, tutto di corsa perché ha fretta, senza un’imminenza causale, ma ha fretta. Si prepara una cena frugale, poi non guarda la televisione, ma s’infila subito a letto, supina. Deve pensare, architettare sul da farsi. Però vuole preservare il piacere emozionante dell’imprevisto, dell’improvvisazione. Anna intuisce di aver dismesso il solito scudo dell’apatia sociale, non più funzionale al suo intento, e di aver issato un nuovo vessillo nero. “Non deve mica essere solo una tregua a ‘sto mio malessere quotidiano?” si chiede, ma in realtà afferma.
Il dì seguente Anna si sveglia eccitata, dopo una notte insonne fino a poco prima dell’alba. Quando si leva dal letto la pelle le si accappona. In bagno si lava diligentemente e a fondo, poi si profuma, cosa rarissima, scrutando la pelle chiara e liscia del collo. Il tempo oggi, 7 settembre, è cambiato: ieri era estate, oggi, invece, bisogna iniziare a vestirsi come in autunno. Anna tenta di accendere la macchina arenata davanti il suo appartamento. Incredibilmente si mette in moto e sfreccia via lungo Corso Vercelli. Anna non vuole viaggiare in treno questa mattina, preferisce, ancora per oggi soltanto, l’indipendenza relativa che le offre l’automobile, e l’anonimato. È presto rispetto al suo solito: sono le sette e venti. Sorpassa il centro sul cavalcavia di fronte al tribunale, svolta in Corso Milano e lungo la statale, non l’autostrada, giunge in Milano per Via Novara. Intorno alle otto e mezza è in ufficio, benché normalmente vi arrivi solo un’ora dopo. Oggi è zelante, piena di brio; è il suo “nuovo lavoro”! Il sangue le scorre freneticamente nelle vene, tanto da pesarle. È in ansia: le mani sono un po’ sudate, sebbene siano fredde, i tendini scricchiolano sui muscoli, non usi a simili sollecitazioni.
- Anna… ciao! Che diavolo ci fai qui a quest’ora?-
L’ufficio sarebbe vuoto, se non fosse per il signor Viola che ha il ‘dovere’ di esserci, primo fra tutti, largamente in anticipo, in quanto responsabile dei dipendenti di quella sezione. Anna è a conoscenza di tutto questo. L’aria nella stanza è opprimente, benché sia mattina presto; fino ad ieri il sole ha arroventato quegli uffici con le pareti di vetro ed il calore è stato assorbito dalle strutture di cemento, che ora lo rilasciano nonostante fuori sia quasi autunno. Aria condizionata e pale da soffitto non sono ancora in funzione, giacché Viola non vuole sforare dal budget destinato all’energia elettrica. Questi adesso suda copiosamente e mostra un volto pallido, quasi emaciato. Anche Anna sente caldo, così si sfila la blusa di cotone rimanendo con una camicetta smanicata che preme sull’abbondante seno. Occhieggia intorno cercando di capire se la porta di servizio che da sulla tromba delle scale sia aperta. Sì, è aperta, sebbene le scale abbiano perso la loro funzione in virtù dell’ascensore. Finalmente risponde.
- Come sarebbe a dire, che ci faccio io qui?! Non ricorda, devo finire la relazione andata perduta!-
- Ma certo, certo, è vero! Datti una mossa allora!-
Anna non può lasciarsi sfuggire un pensiero: “Sta’ certo che mi spiccio!”. Anna si alza dalla sedia e ancheggia, come non le accade mai, nemmeno accidentalmente. E lo fa appositamente per Viola che osserva avido la movenza rara. L’uomo è interdetto, redarguirebbe persino il comportamento tanto anomalo di Anna, non lo fa tuttavia, non può farlo, i suoi occhi si sono incollati là dietro e oscillano all’oscillare del bacino corposo. È una provocazione bell’e buona! Eppure Viola è ammaliato. Si agita, suda come un otre colmo d’acqua esposto al fuoco, baisce disarmato. Se prima era pallido, ora tutto il sangue riemerge sulle gote ravvivandole, intanto che le tempie tamburellano. Un’intuizione si presenta al cervello di Viola: “siamo soli!”.
Non c’è nessun altro in ufficio, giacché mancano almeno tre quarti d’ora prima che un viso noto incomba su una di quelle scrivanie vuote. Solo la luce al neon traballa boriosa e due computer ronfano sulla polvere d’ufficio. Ogni respiro dei due colleghi è avvertito dall’altro, ogni fruscio ne è percepito. Anna s’appressa all’uscio laterale d’emergenza, disinteressatamente. Viola sta per chiedere che diamine le prende, ma si blocca. Anna oltrepassa lo stipite di legno laccato e scompare nell’ombra. Ma prima d’adombrarsi i suoi occhi baluginano in direzione del caporeparto. Ecco!, una trama sottile, ma potente è scagliata. Viola è tutto una convulsione e, allorché i suoi occhi colgono l’ammicco della femmina, si turba oltremodo. Sembra incantato, simula disinteresse, ma non ci riesce: “sta lì disarmato, ‘sta schifezza umana, in balia d’un ormone”, assicura Anna. Viola, che è un uomo tutto d’un pezzo, si trova stretto in una morsa: il colletto della sua camicia. Il suo collo flaccido, infatti, e lardoso sta collassando, si squaglia sul bordo del colletto rigido, pare boccheggiare. Allora un dito si infila tra la carne e la stoffa nel tentativo d’allentare la stretta, poi desiste e slaccia il bottone superiore. Così facendo, scopre buona parte del solco, sulla circonferenza del collo, arrossato per il contatto con la camicia inamidata. La testa è impazzita nel roteare all’inseguimento delle natiche di Anna. Ora lo sguardo è teso alla porta di servizio, bramoso si squarciarne il velo di tenebra. Un’altra morsa però attanaglia il povero Viola, mantenendolo in stallo: non può cedere in quel modo ad una provocazione, benché sia ciò che vuole, cedere, ma non così. Non subito almeno, e non adesso, durante le ore di lavoro, in ufficio poi! Come potrebbe tradire la fiducia dell’azienda che fin’ora l’ha cullato, amato, soddisfatto? Ma chi ne sarebbe il testimone? Nessuno certamente, però… Se questa trasgressione motivasse Anna ad essere più produttiva? Farebbe allora l’utile all’azienda! E se questa donna desse un motivo in più a me per lavorare con maggior proficuità?
Intanto che Viola si lambicca, Anna è sul pianerottolo tra una rampa di scale e l’altra. È lì al buio da alcuni minuti e l’uomo ancora non la segue. Decide di sfoderare un ulteriore pungolo. Riemerge un poco dall’ombra e conficca il suo sguardo più sensuale in quello acquoso ed ebete di Viola. In lui s’appicca una pira che incenerisce ogni riserva e cauterizza le ferite d’orgoglio. La mente è ottenebrata, in mano alla pulsione che tutti accomuna, pezzenti e magnati. Alla fine Viola s’avventa con gli occhi sulla prosperità di Anna. Ella sta assaporando tutta l’ebbrezza della conduzione, che tiene salda in grembo. È la rivalsa cha la muove. In questo istante non si direbbe che la sua vita possa essere stata trascorsa in un antro, per il terrore della propria bellezza, per la ripugnanza di tutto. L’astio ultore la possiede. Anna se ne accorge e se lo schiaccia stretto al petto, per non ricadere nell’uggia tetra di prima. Il livore richiede pure un battesimo.
- Venga signor Viola, venga a vedere!-
Quello non attende che la frase finisca, giacché non ha ascoltato una parola; gli è bastato il suono della voce seducente. Si solleva veloce dalla sedia rotante che cigola e, nella foga, la respinge in dietro. S’affretta e in tre balzi sta addosso ad Anna. Le afferra un lembo della camicetta tesa oltremisura e già la sbottona. Anna lo lascia fare, intanto osserva da vicino le fattezze di quell’uomo mediocre: “solamente un meschino senza dignità, una carognetta”. Viola, viscido e languido, nonostante la lustra di uomo possente è molle anche nelle movenze. “Assomiglia tanto ad un verme, ‘sta scamorza, che confonde la bocca con l’ano”. L’uomo s’appiccica ad Anna e le strofina contro la sua virilità monca, mentre le mani tozze e sguaiate scorrono sul corpo armonioso di lei. Anna pare prestarsi al gioco, ma bada bene di non toccarlo, ne avrebbe ribrezzo. Viola è sul punto di lambire anfratti sinuosi, morbidi, oltre il sottile strato della camicia, ma Anna è all’erta. Non appena quello si spinge troppo in là, quando le mani audaci si fanno troppo invadenti, Anna muta espressione. Si strappa dalle labbra la smorfia lussuriosa e vi stampa un ghigno turpe, i lineamenti graziosi s’induriscono, il palato pregusta un sapore nuovo. Ad Anna è sufficiente una spinta tutt’altro che plateale, perché l’ostilità esali dalle narici dilatate. Basta poco perché una vita misera si spezzi, e quella si spezza insieme al collo di Viola. Il corpo atticciato frana giù per le scale e scrocchia per l’ultima volta. Viola ora sta laggiù ove due rampe si congiungono e si invertono. È come un burattino inerte che guarda avanti senza vedere. Le braccia sono torte, le gambe si baciano ed il collo pare duplice. Anna s’empie la memoria di quella visione, la fa sua. “’Sta cosa, morire, sì, è una roba tanto facile, quasi quanto uccidere”.
Anna si ricompone e con una meticolosità esasperata cancella ogni traccia del suo arrivo precoce in ufficio. Sono solo le nove, sa che è presto: è meglio uscirsene e ritornare più tardi. Esce dall’edificio inosservata, anonima. S’allontana da quel cubo malefico, “che ci faccio ogni giorno, io, in ‘sta scatolaccia opaca, tra il sopore eterno del mondo, in mezzo a molluschi?”.
Si dimena come fanno i girini allorché sentono in loro una profonda dualità, che gli altri viventi non osano percepire.
“Mi sento come quei cosini vomitevoli, ‘sti figli di rane, che sguazzano nelle risaie. Ma la mia non è una sensazione precisa, è solo che sbattono la loro codina schifosetta tanto bene, che sembra ne sappiano più di noi su tutto quanto. L’hanno preso come il loro sgobbo personale, quello di dimenare ‘sta specie di pinna tutta viscida, e son studiosi, senz’altro, dei trugli delle fogne. Trascurano mica niente, non possono certo permetterselo, infatti, han preso l’abitudine si succhiare ossigeno dall’acqua ed essere buoni pure a leccarlo via dell’aria. Sì, sì, son più furbi di tutti noi. Mi son detta allora che si ha da essere come loro, è ora di svegliarsi. C’è da sapersi arrangiare, un po’ l’aria e po’ l’acqua si ciucciano. Quando occorre che ci si arrabbi, io, mi deve prendere l’odio atavico, al contrario se le cose ti spingono seguendo una certa corrente, bisogna saper sfruttare le onde. È tutto un fatto di maschere, importa soltanto saper scegliere quali in quali occasioni. ‘Ste robe te l’insegnano da nessuna parte, bisogna ricorrere ai girini…”
Anna sperimenta la diade della doppia respirazione, non c’è che dire. Assimila due tipi diversi d’aria e può rientrare nell’occultamento incognito della foschia quotidiana. Può all’occorrenza camuffarsi di nuovo, insidiosamente.
Anna intimamente è confusa ed elettrizzata. Quando la soddisfazione dell’astio cede il posto alla tensione, Anna si scopre assai fragile. Ogni sua cellula invoca la calma. Esternamente non trapela niente: nel momento in cui rientra in macchina, e lungo tutto il tragitto fino ad essa, appare sicura, trionfante. La baldanza così conquistata non può scivolarle via con un soffio. La sua indole deve prenderne atto. Non è notata da nessuno in particolare, giacché Milano è così vasta e popolosa, che un abitante non può curarsi dei visi che incrocia. Anna finirà tra il novero degli ignoti urtati per strada.
Una volta accesa l’auto, gironzola a passo d’uomo nel traffico congestionato della metropoli. Milano mostra il suo cielo grigio, plumbeo da giornata velenosa. Il sole smorto sembra parlottare dissentendo, ma le polveri tossiche lo zittiscono subito, così da suggellare con il loro marchio esiziale il colore della giornata.
Ma oggi ad Anna non importa niente delle condizioni atmosferiche: deve solo arrivare un po’ in ritardo in ufficio, affinché sia qualcun altro a rinvenire il cadavere di Viola. Sa che era inviso alla maggioranza, dunque non deve omettere il suo parere, quando sarà ora. Deve riuscire a conformarsi alla marea becera dei colleghi, così da confondersi, goccia tra le gocce. In fondo, quell’imbecille di Viola cadeva con una certa facilità!
Ecco, le nove e quaranta baluginano sul cruscotto povero della 500. Anna si decide a tornare al lavoro, anzi “ad andarci”. Parcheggia dove capita con noncuranza. Nota all’entrata un po’ più di movimento del solito, ma non mostra di allarmarsi, non è ancora ora. Sale con l’ascensore, infila il corridoio davanti a sé ed è in ufficio tra scrivanie vuote. La stanza in compenso è gremita di colleghi in piedi, dai volti scombinati. Qualcuno si passa una mano dietro il collo, qualcuno si deterge la fronte. Inizia la recita.
- Scusate il ritardo…, ma che succede? -
Alza il volto molto lentamente, solo dopo aver posato la sua roba sulla scrivania.
- State un bel po’ cupi…-
- Ascolta Anna: c’è Viola di sotto. È morto.- Frapponendo una pausa tra ogni parola, il collega non spreca suoni.
- Sembra sia caduto dalle scale!-
- Che cosa…-
Anna è veramente sorpresa.
- … che diamine mi stai dicendo? Viola morto?!-
- Sì, vieni. Abbiamo già chiamato la polizia.-
Anna ammutolisce al momento opportuno e si fa strada attraverso la calca dei colleghi stipati sul pianerottolo delle scale. Finalmente intravede l’immonda creatura contorta ai piedi della scalinata, che qualche buonanima sta tentando di coprire. Un capoufficio ora è solo un cadavere sotto un telo. Qualche singhiozzo, qualche singulto qua e là, cui Anna fa eco accalorata, preludono all’arrivo di due agenti della polizia. Sono entrambi in uniforme e, come un cuneo, trafiggono la calca sino alle scale. Sul volto di Anna regna la compunzione. La sua figura è composta, un po’ rigida di fronte all’evento tragico; si scosta al momento giusto per cedere il passo agli agenti. Entro sorride, più per esorcizzare il timore che per il divertimento. Sotto però cova l’euforia.
Gli agenti domandano qua e là le generalità e la professione del defunto e dell’interrogato, intanto annunciano che verrà steso un verbale individuale più dettagliato, per ogni dipendente. I due poliziotti in divisa chiamano altri agenti in borghese e il medico legale. La scena è molto cinematografica, pensa Anna. Gli inquirenti misurano, fotografano e adocchiano gli astanti con fare esperto. Agli occhi di Anna la recita di ogni maschera, il poliziotto con il volto di poliziotto, il contrito con i tratti del contrito, pare addirittura grottesca. Tra i colleghi aleggia un’unica supposizione dell’accaduto; nessuno si stupisce che quel “culo molle e sciancato sia scivolato giù dalle scale come un sacco di patate”. Certo, bisogna chiarire perché mai si sia avventurato sul pianerottolo delle scale, conscio del fatto di essere invalido alla gamba destra e di poter usufruire dell’ascensore. Ma può essere accaduto di tutto: che abbia sentito un rumore, o una voce, o chissà che, e abbia voluto controllare, dato il suo zelo accertato; che abbia voluto fumare una sigaretta e, giacché in ufficio è vietato, si sia risolto per la tromba delle scale, vicina, isolata e inutilizzata; che semplicemente abbia mosso qualche passo senza ragione, o per curiosità, o per un vezzo qualunque, e sia finito laggiù spiaccicato…
Da parte degli agenti non c’è apparente sbilanciamento, devono badare ad entrambe le presunzioni, incidente, omicidio, ma la tendenza è quella di evitare più assassinii possibili. Comporterebbero ricerche spasmodiche, il fiato strepitante della stampa sul collo, l’investimento di tempo e forze dietro piste per lo più svianti.
Anna capta la leggerezza della vicenda, dell’atteggiamento complessivo, così che un tremito la scuote, un tremito di eccitamento.

domenica 23 settembre 2007

ROMANZO - 3 volte morte - (parte 1, cap. 1)

PARTE I
Capitolo I
Rax

Nelle passioni umane si risveglia l’animale;
gli uomini non conoscono nulla di più interessante
di questa regressione nel regno dell’imprevedibile.
È come se la ragione li annoiasse troppo.
(Friedrich Nietzsche [Frammenti Postumi])

- Che caldo boia oggi!-
- Miseria ladra…-
- Che c’è?!-
- Che è il 15 giugno.-
- Allora?-
- Allora deve far caldo. C’è da schiattare.-
- Infatti soffoco, io.-
- Perché sei un frignone.-
- Stai buono! Dove vai tu?-
- Guarda che non taglio la corda, tienti il cuore in pace!-
- Figurati, sei già lì pronto a filartela!-
- Ma va’! Leviamoci un po’ di scazzamorto piuttosto, dai!-
- Come? Con ‘sto caldo...-
- Non menar le tue balle fritte, non sei mica un moribondo di novant’anni!-
Si fissano stizziti. Due uomini infilati in calzoni dalle tinte calde, corti appena sopra le ginocchia, e amabilmente avvolti in magliette sottili, muovono qualche passo sotto un viale ombroso della città.
- Fidati.-
- Rax, dove mi porti?-
- Fidati!-
- Non li sopporto i tuoi truschini da rimbecillito!-
- Fidati!-
- Mammalucco pulcioso!-
- A chi? Se ti vuoi disciulare un po’, mi segui, altrimenti impiccati!-
- Ma sì, ma sì, ti vengo dietro. Su, fa il bravo che stasera v’invito a cena, a te e alla tua donna.-
- A me e a Rossana?! Che uscita! Mi sorprendi…-
- Che ingrato! Che pezzo di…-
- Sta bene, sta bene, finiamola lì, però, di minchionarci.-
- Sta bene, allora. Su tutti i fronti.-
- Veniamo da voi…-
- Certo.-
- Non mancheremo.-
Silenzio eloquente.
- Ora, però, treschiamo come facevamo da ragazzini. Hai capito, vero?-
- Cosa! Ancora quella coglioneria, Rax, non è possibile!-
- Dai, poi ti diverti, come l'ultima volta (che risale a dieci anni fa). Forza, alza il culo sudato, cerchiamo la nostra "vittima".-
Così dicendo quello solleva le mani all'altezza della testa, avvicina indice e medio della stessa mano e li fa inchinare a più riprese, le virgolette.
I due, Rax e l'altro, aumentano la velocità dei passi, decisa la direzione, ed escono finalmente dall'ombra verde. Poi più lentamente, senza destar sospetti, indugiano vicino ad alcuni passanti; li scrutano per un attimo e ammiccano, diniego o affermazione.
- Rax, deciditi, sarai mica schizzinoso!-
- Che galletto da niente sei! Nelle scelte non si ha da fare quelli col peperoncino nel didietro, per niente, a noialtri non ci corre dietro nessuno, ne’!-
- Son le tue solite solfe da cisposo…, esageri, sei troppo scassapalle.-
- Non è mica vero: ci vuole un’attenta selezione, dato che ci starò dietro per un bel po’, io. Non mi voglio ricredere e perdere del tempo così, da zulù…-
- Hm…-
Sono due uomini né giovani né vecchi. Quello chiamato Rax è un uomo proporzionato, dai lineamenti fini, non è eccessivamente alto. Occhi scuri, capelli brinati. Lo chiamano Rax perché così è stato abbreviato il suo cognome: Rasconi. L'altro è un altro.
- Rax?-
- Che diamine vuoi?-
- Dimmi un po’ l’ora?-
Rax scopre il polso, la fronte si corruga.
- Le undici.-
- Le undici? È da un’ora che giriamo in tondo come due imbecilli, e… e tu sei ancora lì che cazzeggi e tric e trac! Non mi va, no di certo!-
- Porta un po' di pazienza.-
-Sempre le solite maledette parole; ma se è tutta la vita che sto dietro ad aspettare!-
- Beh, allora minuto più, minuto meno la smania non ti cambia! Rimani sempre lo stesso imbecille…-
L'altro arrabbiato afferra il giornale che porta sottobraccio e l'apre enfaticamente, lo sfoglia, legge a labbra conserte.
- ‘Oggi, sabato 15 giugno verrà inaugurata la mostra del…-
- E piantala lì di fare il sofferto, su, metti via ‘sto giornale. Abbiano da scegliere una bella figliola, che se no schiatto anch’io.-
- ‘…la mostra delle opere d'arte migliori della città, dipinte dai nostri concittadini…’-
- Basta! Sei un bell’idiota! Però, scemo come sei m'hai levato dallo stagno. Possiamo andare alla mostra d'arte, ma sì certo, lì ci son di sicuro delle fregnette d’adocchiare, non è vero?-
L'altro un poco rinfrancato, simulando offesa, ruota velocemente la testa dall'altra parte. Rax, che non è stupido, l'afferra per un braccio e lo trascina amichevolmente lungo il viale verso un incrocio. Avanzano affiancati, a passi regolari mentre lo scalpiccio dei piedi percuote il terreno all'unisono. Entrambi si fermano ad un semaforo e ammirano attoniti l'omino arancione che se ne sta fermo, protetto dalla volta ferrea. Alzano poi lo sguardo impetuoso sull'omino rosso immobile che si è appena acceso e attendono mansueti. Le auto intanto scorrono sbracate ed irriverenti nella calda mattina d'un sabato estivo. Finalmente l'agile omino verde fa la sua comparsa e i pedoni gli sono grati. I due amici camminano affannati, ansiosi di raggiungere sani e salvi l'altra riva.
"Una lingua grigia. E sulla sommità uno spartiacque bianco, dipinto a strisce regolari e dritte come i segni di guerra su un volto pellerossa. Mi tocca, va attraversata ‘sta lurida che si dibatte, tenta d'inghiottirmi, che ignora le disgrazie della sua pittura. Laggiù, poi, pronta a far schiuma, incombe la farragine d’onde multicolori che s’agita per intero e ulula vagiti infernali. Questo pandemonio sale, per così dire, fino a molestare l’etera. E quelli lì in mezzo, serrati nelle loro onde fatte di spuma, umani irriconoscibili, sono tutti quanti dei pisciosi, è ovvio. Lo si capisce immediatamente da come si guardano in giro in cerca di chissà quale meta."
La strada trafficata è di facile valico, così che i due continuano la loro avanzata. S'infilano come un cuneo tra la folla che solletica l’aria, mentre scrutano con impegno i volti della gente.
"Sono intente a muggire, ‘ste canaglie che infestano le strade, carcame a frotte che scorre come sul Lete. Ogni balordo s’affligge per la propria vita che rimarrà ignota, ognuno s’ostina a portare con sé il suo pezzo d’universo, e vicendevolmente si temono, per il fatto semplice che l’uno non è l’altro… viviamo un marasma incontinente, perché nessuno sa contentare la propria intemperanza. Ed io tra loro, adotto le loro usanze fuori di senno, il loro turpiloquio, la loro disarmonia…"
Ad un tratto, come una lucertola, Rax si ferma di botto.
- Fermo lì!-
- Che hai Rax?!-
- Dobbiamo mica arrivare fin alla mostra. L'ho beccata!-
L'amico si guarda le scarpe.
- Che cosa?-
- «Chi!», vorrai dire, microcefalo! La nostra vittima.-
"Questo bipede subumano… i predoni del Sahara hanno fatto razzia delle sue cellule grigie. Ha già la mente altrove, distratto dagli afrori d’un mondo senza scopo. Forse è per il troppo vagare che ci scordiamo di tutto. Ahimè, siamo uomini, però, e grulli, per di più, che dimenticano il motivo della loro permanenza sulla Terra."
- Eh già, la nostra vittima!-
- Non prender tutto alla leggera! Anche i giochi possono essere seri.-
Rax ha un’aria nociva.
Intanto i due si appressano ad una fermata dell'autobus, una di quelle coperte, con le panchine di legno senza schienale, affinché le terga si appoggino al vetro lercio e sozzo di smog e di polvere. Rax e l'altro si sentono appena sollevati alla vista della gente, che sta sotto la tettoia in fuga dal sole.
"Esseri senza fede: abusare così di una misera tettoia plastificata! Compie a punto il proprio dovere, povera tettoia, e l’han mica fatta per nulla. Ma è sempre così, gli altri si prendono tutto il braccio… allo stesso modo quelli là sotto ci stanno a sbafo. Che è, si schifano di un po’ di sole? Nessuno di ‘sti scalmanati aspetta l'autobus. Dei parassiti che temono il sole. Oh, arriverà una giustizia, da qualche parte si sarà pure cacciata!"
Rax decide di cadere nell'ombra ristoratrice della fermata e appoggia le sue spalle nere sul vetro sudicio. La polvere, come ionizzata, si sparpaglia e, in alcuni casi, sembra mutare il proprio naturale volteggio per assediare la maglietta nera di Rax. Questi non vi bada, giacché il suo sguardo e i suoi sensi sono affissi sul viso regolare della bella gioventù d'una ragazza, che sta approfittando dell'ombra e della panca in legno. È seduta con compostezza, le mani afferrano le ginocchia nude, le dita scivolano sulla pelle appena arrossata; il capo incorniciato dai chiari capelli corti è quasi riverso e, a tratti, sfiora il vetro antistante. La polvere fa a gara per accaparrarsi gli interstizi fra i capelli spettinati. Il volto è minuto, quasi pallido, il collo scende regolare e sfuma in una maglietta bianca a V. Le gambe dritte ed aggraziate sono coperte fin sopra le ginocchia da una gonna fiorata, con milioni di pieghe. Rax le sta di fianco e la fissa in modo che ella non se ne accorga, persa nei suoi pensieri, sorda ai rumori della Terra per la distrazione delle cuffie auricolari.
Rax ammicca al suo amico come a dire: questo è ciò che cerchiamo.
"Ragazza mia, goditi l’ombra! La tua gonna sembra un ombrellone chiuso pieno di rughe, che rimane sempre serrato, persino a mezzogiorno col solleone. È il tuo incanto che è il vero incanto: un ombrello che non s’apre mai. Allora ascolta pure la tua musica sbocchevole, non illuderti, però, che il mondo ruoti veramente a quel ritmo. La Terra su cui poggiamo i piedi puzzolenti segue la Musica del Mondo che è un’armonia perduta per sempre, perché è l’intonarsi delle stagioni, è il susseguirsi dei colori, è il sapore spumoso dei marosi, i metronomi della Terra, che scivolano sulle spiagge come le carte sparse d’un mazzo eterno. La Musica del Mondo è confusa per sempre perché i numeri non sanno più cantare e le sillabe sono sulla bocca di ciascuno. Per questo sono tutti quanti a far i pulciosi o gli appiccicosi, secondo i casi. Ma è un concetto difficile."
Là sotto la gente sbuffa, chiacchiera di vanità, i più avventati leggiucchiano. Altri attendono impazientemente un autobus che sembra non debba arrivare mai e intanto dall'asfalto, subissato dai raggi prepotenti dell'astro, sale il riflesso contorto dell'aria. Spettri informi di calore si liquefanno dietro quest’aria incandescente e trastullano gli occhi con le mutazioni infuse negli oggetti che nascondono. Così dal suolo sale l’immagine di un mondo sconvolto che ritrova se stesso solo ad una certa altitudine.
Rax e l’altro non si scambiano una parola. In silenzio osservano di sottecchi la ragazza, che invece tiene lo sguardo smarrito nel vuoto davanti a sé. Ormai è quasi ora di pranzo e le auto si fanno da parte, divengono più rare, e il sole più leone. Sotto la tettoia qualcuno abbandona il proprio posto per andare verso un bar.
"Guarda quello là! Mio dio! Se ne sta lì imbambolato tutto il giorno, nero d’ombra, all’ora di pranzo, poi, giusto per non morir di fame, arranca e rotola, come un bidone dell’immondizia, verso un panino schifoso. Ma m’illudo, come al solito, perché non uno di noi è dissimile."
- Rax, ho fame, andiamo a riempirci la pancia?-
"Imbecille!"
- No, non è per niente ora e poi dobbiamo agire, ti si è già sciolto il cervello?-
- ‘Sta tua azione m’ha rotto.-
- E tieniti le palle in tasca ancora un po’, no!-
"Questi uomini che non sanno cosa sia l’attesa, cosa sia l’infinito dovere della perseveranza, che vogliono tutto e subito… sono stomachevoli!"
Rax intanto non ha smesso un istante di tenere il suo sguardo critico appiccicato alla bellezza e alla gonna floreale della giovane. Si sente da lontano un murmure di motore più basso di quello delle auto, ma sovrastante tutto.
"Come arranca avvolto nei propri miasmi, l’amico giallo!"
E tremano un poco i vetri della fermata al suo accostarsi. Qualcuno che è rimasto finora in disparte nella penombra, lontano dall'attenzione morbosa di Rax, si alza di scatto, ma con indolenza, ripone il proprio libretto nella tasca dello zaino e sale sull'autobus che ha appena aperto i portelloni.
"Ecco un altro di quei draghi gialli che spalanca i suoi immani boccaporti, le sue fauci meccaniche; ne ammiro la faringe, la laringe e l'epiglottide. Ecco, ingoia le sue vittime nervose che spetazzano tutt’intorno per la fifa."
Rax se sta tranquillamente rilassato con una spalla sul vetro della fermata, mentre la ragazza non accenna a muoversi. L'autobus giallo riparte e alza un nuvolone di polvere che, vorticando nell'aria, infesta tutto ciò che incontra. La ragazza tuttavia rimane impassibile, lontano, su un altro mondo. Rax la guarda con un sorrisetto compiaciuto sul volto. L'altro dà l’impressione d’essere annoiato ed inizia a sbuffare in direzione dell’amico, che si volta e gli trafigge gli occhi senza fiatare. Quello si rabbuia e fissa il suolo: ha accettato il suo destino.
"Da bravo, piegati, amico mio. Ed una volta accettato mestamente il fato, inizierai a compiacertene, fino all’idolatria e al masochismo."
- Mi scusi signorina, che ore sono?-
Rax è rivolto alla sua giovane.
- Come scusi?-
Intanto ella si toglie la cuffia sinistra dall'orecchio.
- Le ho chiesto: che ore sono?-
Quella alza il gomito, con la mano destra tira indietro la manica sinistra, sotto la quale sta celato un orologio femminile, il cui quadrante guarda terra e l'allacciatura del suo cinturino è ferma sulla parte superiore del polso. La ragazza ruota il polso di un angolo piatto e legge l'ora.
- Sono le dodici e mezza-
- Grazie mille!-
- Di niente.-
E rimette la cuffia pendente. Il walkman non è stato bloccato sicché la musica è permasa. Gli occhi della ragazza stanno per annegarsi di nuovo e guardare daccapo l'infinito, quando il suo gingillo si blocca e sussulta. È finito il nastro. La ragazza si desta ancora una volta, apre, estrae, infila e chiude, naufraga già nel suo mondo.
- Rax, andiamocene a casa, forza, ne ho le palle piene!-
- Certo, non appena arriva il nostro autobus.-
- Ma se abitiamo…-
Rax lo inchioda con la folgore degli occhi. L'altro comprende e tace. Si disperde ancora qualche istante, in cui la polvere gioca ad inseguire le mosche roteanti attorno ai visi degli uomini. Questi aspettano e non si crucciano né delle mosche, né della polvere. Ecco, ad un tratto sbuca il giallo dell'autobus. La ragazza l'incrocia con lo sguardo e si sveste delle cuffie, si alza, la gonna tremula fa un respiro, Rax scosta la spalla dal vetro, l'altro gira ancora i pollici.
"Vuol dire che prendiamo la linea sei e abitiamo dalle parti di Via Monte S. Gabriele."
- Forza, muoviti. È arrivato il nostro autobus.-
Rax è un buon attore. L'altro un po' meno, infatti si guarda intorno stupito e osserva timidamente l'autobus. L'affare mastodontico avanza cupo brontolando, balugina la frecciolina languida e il tiranno della strada s'accosta al marciapiede frenando, le porte liberano l'aria dal suo interno, gli arrivati scendono, i partenti salgono, ognuno mostrando un volto differente. Rax è sicuro: non aspetta che la ragazza salga, ma vi sale per primo, dando ad intendere che va per i fatti suoi. L'altro lo segue come un cagnolino, poi sale una vecchia che borbotta qualcosa ed in fine dalla porta anteriore entra anche la ragazza. Ella va ad occupare il posto dietro il conducente. Rax timbra il suo biglietto e quello dell'altro. La ragazza si immerge nelle cuffie. Tutto l'autobus trema perché il cambio automatico si gode ancora la folle, poi l'autista preme l'acceleratore, la marcia s'ingrana e il bestione bofonchia la sua fatica. Rax si siede sul lato sinistro, a metà strada, in modo da poter osservare la ragazza e da prevenire una sua repentina discesa.
"Bella mia, secondo me sei una Veronica… sì certo, una di quelle che son cresciute a soap opera e Harmony."
- Ehi! ‘Sta figlia d’Eva fa di nome Veronica, che ne dici?- sotto voce.
- No, Rax, dico che si chiama Silvia!-
L'altro sentendosi interpellato, si ravviva.
- Inizi a gustartela anche tu ‘sta roba da tordi!-
- La Miseria, lo sai che per me il difficile è iniziare. Lo vedi bene che le tresche mi prendono, è solo che ho fame, cribbio, è ora di pranzo.-
- Suvvia, a iniziare si è già a metà strada, lo sanno tutti, e poi anni fa abbiamo passato intere giornate dietro alle ragazze e ai loro nomi, come oggi, senza toccare cibo, senza lamentarci dello sbacchio. Ci rifaremo stasera al ristorante.-
- E va bene.-
- Comunque quella si chiama Veronica.-
- E sia. Ha, vediamo…, ventinove anni e sgobba in ufficio. Adesso se ne torna a casa per mangiare. Beata lei.-
- Con ‘sta tua buon’intuizione vedo che non ti si è arrugginito l’occhio, dopo tutti questi anni. Anche secondo me ha sui ventinove-trent’anni. Poi, guarda, ‘ste scarpe da tennis tutte scalognate che andavano almeno dieci anni fa. Altra cosa poi, ha sulla maglietta, stampato dietro in piccolo, la scritta: ‘Europe’. Di fianco c'è anche quella chitarrina elettrica, la vedi? Di sfigati ce n’è ancora troppi in giro.-
- Saran mica quelli brutti, ‘sti bambolotti cotonati di vent’anni fa? Mi piacevano per niente…-
- Perché non capisci una sega. Non…-
- Sta a guardare, Rax. Ha una cartelletta sulle ginocchia: pratiche d'ufficio, che ne dici?-
- Forse.-
- Veronica ha un cane…-
- … sì un cagnetto cisposo tutto zeppo di pulci e zecche, l’hanno mica chiamato Ringo?, è un bastardino frocetto, c’è da scommetterci.-
- Quindi vive in una casa con il giardino…-
- …e dato che siamo sul sei e Veronica se la svigna verso casa, mi vien da pensare che abita dalle parti di via Torgano, nelle ville dei ricchi tra la Cittadella e la Bicocca. Magari la troietta sta al Torrion Quartara, invece…-
- Sei sbilenco forte: se è ricca come dici se ne verrebbe mica a zonzo col bus. Certo, non è di quelle che trusciano nei casermoni cadenti di piazza Donatello, questo no, puzza troppo poco per quelli… e non puzza neanche così poco da aver la puzza sotto il naso…-
- Fa niente, non è fondamentale. Piuttosto direi che la pulzella la dà spesso al fidanzato-maritino-premuroso-scassacolgioni, ma non lo calcola tanto, la puttanella. Alla fermata ho visto che la vera non ce l’ha mica, ma le dita se le cura e tiene due o tre cingilli d’oro.-
- E poi porta gli orecchini…-
-… e che mi sta a significare?-
- Sei un arteriosclerotico del cazzo. Deh, ma mi prendi per i fondelli? C’abbiamo passato un secolo a farci masturbazioni mentali sugli orecchini… dio faust!-
Al che i due si guardano in volto ridacchiando, come se si fossero improvvisamente ricordati di qualche avventura passata, che rammenta loro un trascorso di idiozia.
- Senti, Rax.-
- Eh!-
- Le stiamo dietro fino a casa per vedere se abita dove pensiamo?-
- Non eri tu quello seccato da questa roba balorda! Ad ogni modo possiamo farlo, ma rischiamo di ustionarci i tarzanelli, perché ci ha visti, la pupa, mentre salivamo sull'autobus. Se quella ci vede che la seguiamo anche fino in casa, si prende un colpo, la troietta.-
- Embè! Le facciamo mica male, e poi c'è per niente una legge che vieta di passeggiare. Se per caso il mio passeggio capita sopra a quello di una troietta, ne ho mica colpa, io!-
- Va bene, stiamole lontani, però, non mi va che poi le girano le zazzere e ci viene a pigliare a calci nel didietro!-
Ad un certo punto l'autobus si ferma per strada in un luogo ove non sorge alcuna fermata. La porta anteriore si apre e sale un collega del conducente, il Controllore. I colleghi si scambiano parecchie parole prima che l'autobus riparta. Poi si salutano e le obliteratrici vengono bloccate elettronicamente dall'autista. Il controllore comincia a chiedere in visione il biglietto. La ragazza, che non ha timbrato, stupisce i due amici mostrando il suo abbonamento, senza neanche sfilarsi le cuffie musicofore. Il controllore allora si avvicina alla vecchia che brontola, la quale finge di non capire e dice di non sentirci.
"Che scena vomitevole. Quella vecchia megera non l’ha mica il biglietto e inventa un mucchio di balle per tirar scemo il caso. Il controllore è sul punto di perdere la pazienza. Ridicola, che furberia! Adesso fruga come a dire: ce l'ho, ce l'ho; l'ho messo qua in borsa. Ops!, guarda che caso, l'ha perso. L'aveva timbrato! Sissignore! Non si dubita delle persone anziane, s’arrabbia persino, perché il controllore se la prende con lei. Ecco, finalmente la sbatte fuori dall'autobus. Sono testimone della morte della dignità."
La signora è oramai lontana, quando viene il turno di Rax che, con l'altro, porge precipitosamente il proprio biglietto verde. L'autobus procede nel traffico di fermata gialla in fermata gialla. Scende il controllore, salgono due ragazzi con lo zaino. Non timbrano, si siedono.
"Non mi spreco a giudicare quei due teppisti per la «mancata obliterazione»: potrebbero pur avere l'abbonamento. Tuttavia la legittimità del dubbio si proponeva anche con quella vecchia. Non ha importanza, però, il biglietto. Quei due non mi vanno a genio, con o senza biglietto e quella vecchia rompicazzo l'avrei scaraventata dalla tromba delle scale, con o senza ragione. Ma il bon ton me lo impedisce. A giudicar l'essenza delle cose, anche il mondo mi ributta, con o senza umani. E questa è la mia tragedia, cioè … una delle mie tragedie."
Rax volta il collo di un grado appena.
"Eccolo là: un cellulare aggrappato ad uno stronzone puzzolente. Pure il mio amico qui ne tiene uno in tasca, ma almeno non puzza e non attira le mosche. È un buon imbecille; fossero tutti così gli imbecilli del mondo!"
"Chissà com’è la voce della nostra Veronica? Forse non l'ha nemmeno, la voce. Quando mi ha risposto circa l'ora l’ho mica ascoltata, la bella: invece le ho guardato il polso con l'orologio riverso, e le tette, che scoperta! L’angoscia m’ha preso, d’un tratto: ho immaginato le braccia blu, tumefatte. Che saggi i vermi, che esseri iperborei: sanno attendere."
L'autobus attraversa in lungo Viale Giulio Cesare e al semaforo svolta a destra in Via Monte S. Gabriele. Rax aguzza i sensi. La ragazza non si muove, guarda fuori il paesaggio che lentamente muta. La città lascia il passo a qualche prato a maggese, qualche campo di meliga, in somma un bercio di campagna. Rax prima osserva fuori, poi la ragazza.
"Deprimente la campagna, anzi deplorevole. Due secoli fa si diceva: andiamo in campagna a prendere un po’ d’aria buona. Sfido qualsiasi imbecille a sostenere una simile minchiata. Attorno a Novara, mica solo di qui eh, campagna significa campi mefitici, ammorbati di concimi tecno-chimici, di antiparassitari, in definitiva di antitutto, pianta coltivata eccepente ma non sempre e non senza conseguenze. Non sono solo queste le tempere della tavolozza, perché primi fra tutti campeggiano i colori della plastica sparsa un po’ ovunque, come lo zucchero a velo. I rigagnoli sono lerci ed esalano miasmi intossicanti, così i canali sono simili a fogne: ecco la ridente campagna. Ratti e zanzare proliferano. Se un tempo qualcuno eccessivamente maligno, o cinico, poteva usarla come metafora, ora vige in tutto il suo significato letterale: il mondo come una chiavica. Senz’altro è la alhJeia, la verità, anzi la non-latenza: un giorno ho compreso che buttare l'immondizia nei cassoni della spazzatura, pisciare e cagare nelle fogne significa dar cibo alle pantegane. Varrebbe dimettere ulteriori velleità. Il lordume dei nostri vizii lo si scrosta da una parte per nasconderlo dall'altra, sotto il tappeto."
L'autobus ferma il suo corso alla fermata prima (o ultima), quella del Torrion Quartara, il capolinea. Questa è la sparuta frazione che riprende il paesaggio urbano sottratto alla campagna. La ragazza si alza solo all'ultimo momento e scivola giù. I due amici scendono da dietro. Posati i piedi a terra, si accendono una sigaretta, l'autobus ansima dal tubo di scappamento contro il cielo e riparte affannato. La ragazza è sparita.
- Rax, la bella squinzera abita mica nei villini per bene, ma qui al Torion Quartara… un attimo, dov'è che s’è cacciata? È scomparsa!-
- Stai calmo asino, l'ho vista che s’infilava in una vietta laterale. Seguiamola, forza!-
I loro passi risuonano regolari nell'aria calda e luminosa di un primissimo pomeriggio estivo. Non passa quasi nessuno né a piedi, né in macchina. È ora di pranzo e gli stomaci brontolano. Dopo una cinquantina di metri svoltano a destra e intravedono in fondo alla via la ragazza, la quale, ritenendosi sola, balla al ritmo della musica che ella sola può sentire. I suoi tennis bianchi e logori zampettano lesti saltellando. Rax sorride.
"Ma sì, ma sì, la vitalità, se ne sta tutta trafficona, è pure bella, mica la vita, però, che è piena di magagne. La vita della gente vale meno della cicala che rompe le palle sotto la mia finestra. Si canta, si mangia e si defeca, si è già morti però e abbiam già fatto fin troppo. Oggi il sole ci illumina, domani ci scioglierà come uno stronzetto da niente."
- Rax, guarda! Abita in quella via.-
- E che ne sai tu? Forse è venuta a stuzzicare un'amichetta, sua madre, suo padre, il suo cane, il suo compagno, …la morte.- sotto voce.
- Come, scusa? Non ti ho sentito.-
- Niente dicevo per dire, che magari è venuta a trovare qualcuno, la troietta.-
- E già, per nulla scema.-
La ragazza si appressa al cancello di una villetta circondata da un modesto giardino verde. Ci sono citofono e campanello coperti da una tettoia di cemento. Infila la mano e pigia. Rax e l'altro si tengono a distanza. Hanno dalla loro che quella non può sentirli. Da una finestra aperta della villetta una voce femminile saluta. Il cancelletto scatta e la ragazza vi entra. Si sta sfilando le cuffie nere. I due amici avanzano defilati verso la finestra da cui è uscito il saluto. La finestra è ad altezza uomo, sicché i due si scostano leggermente per non essere visti. Non scorgono che un angolo dell'interno: c'è un arbusto di mezzo, tra loro e la casa.
"Le case ci hanno fregato, hanno portato l'uomo alla rovina. Zeppe di agiatezze! I popoli scorrazzavano liberi, selvaggi, nomadi, s’appioppavano al deretano delle mandrie, vivevano dei frutti della terra e sgagazzavano a più non posso quando ne avevano voglia. Poi l’indolenza li portò a diventare sedentari, alla fine si son presi l’abitudine di guardare il tramonto sempre dallo stesso buco puzzolente. Si vestirono di pelli perché non faceva per nulla caldo tutto l’anno e per questo si trovarono vergognosi a vedersi i bigoli. Zapparono la terra e ne divennero schiavi. Senza un uscio dentro cui cacciarsi se la facevano sotto, senza una pelle addosso soffrivano il freddo e l’imbarazzo, senza un campicello crepavano di fame. In breve si convinsero a scannarsi perché la schifezza degli altri è sempre meglio della nostra. Gli uomini poi s’abituarono a costruire armi ben appuntite con cui inforchettarsi; c’è tutt’ora da mettersi paura dell’uomo piuttosto che di qualsivoglia belvetta sdentata. L’hanno mica capita, i pirla, che è solo una minchiata, quella di tirarsi la zappa sui piedi."
La ragazza viene inghiottita dall'androne della villetta e al suo passaggio una porta s'apre si chiude. Da fuori Rax ascolta insieme all’altro, attraverso la finestra, i passi di lei e quelli dell'altra donna convergere nel medesimo punto.
- Ciao gioia, com’è andata ‘sta mattina?-
I due fuori si guardano compiaciuti e sghignazzano: «gioia…».
- Da schifo, non ho ancora finito di sgobbare; gli venisse un infarto a quel lardoso... Ho persino alcune scartoffie da disbrigare a casa. Ne avrò per tutto lo stramaledettissimo pomeriggio.-
- Mi dispiace, Veronica. Vedrai che prima o poi ti sarai organizzata meglio e avrai più tempo libero.-
- Speriamo bene, è mica bello, si rischia di uscir fregati coi tempi che corrono!-
"Con i tempi che corrono rischi di cadere, mia bella Veronica! È una vita balorda, ma ‘sti tempi non son per niente peggiori di altri, tutti tignosetti a modo loro. Se non è la malaria a schiacciarti, ci penserà qualcos’altro."
- Rax, sto tutto affamato e c’ho lo stomaco che si lagna. ‘Sto nostro inseguimento, però, m’ha proprio preso. Erano anni che non mi rugavo di stare ad osservare la vita degli altri, non son meglio di me, stan mica bene, loro. Li guardi quelli belli e coi soldi fin nel didietro perché ti rode che sei uno sfigato e poveraccio, ma te la ridi e lo sfotti se ne incontri uno più disgraziato di te.-
- Sai che hai ragione, non sei nel torto, stavolta. Vediamo sempre un mucchio di persone che si trascinano dietro fin in casa i loro casini, e per una volta ci siamo andati con loro. L’abbiam beccata, noi, ‘sta scena gelosa, abbiam visto un frammento di quella vita che si teneva per sé. Te ne vai da un luogo e te lo chiedi, se mentre non guardi, lì le cose rimangono uguali o se per caso ti fan fesso e si sformano, si burlano di te, fingendo ogni volta che torni a sorvegliarle.-
" ’Sta qua è la morte, sicuro: spiare le cose, le persone, quando pensano che non li guarda anima viva, e constatare che non mutano, che non scompaiono davvero, invece rimangono identiche a sé stesse nella loro schifezza. Né il sole né la morte si possono guardare fissamente. Il gioco vale la candela, giacché la permanente infelicità, la salda forma inaccettata si scopre collettiva. Svelando una permanenza testarda dell'essere in tutte le cose, in tutte le persone, la condividiamo, dunque la addolciamo. Così che possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo: non sono solo io. Ciò sta a significare solamente che non abbiamo che da scegliere in quanti sopportare ‘sto sbacchio cosmoteandrico."
È rimasto pensieroso per qualche istante, mentre l'altro non replica e annuisce, ascolta e scruta quell'angolo di mondo. Rax continua.
- Immagina: fra poco arriva a casa il padre e pranzano tutti insieme. La sbobba annega i piatti, il piscio giallo nei bicchieri, danno voce alle loro furberie, le percezioni son come sopite, i pensieri impastati. Si raccontano la loro giornata di menate. Il vecchio poldo si lamenta, si lamenta la troietta, quell'altra li consola, la vecchia: vedrai che un giorno… Le mosche invece se ne sbattono dei guai del mondo e sorvolano vincitrici la tavola in cerca di budellame. Planano, azzannano tutto con le loro proboscidi, tutto quanto sia commestibile. E la polvere copre già i visi dei commensali come preludio alla polvere che saranno. Poi magari suona il telefono e… ciao caro, ciao cara… dove andiamo oggi pomeriggio? Mi dispiace ho del lavoro da finire. Ci vediamo stasera?… va bene. Passo alle nove… ok ciao a presto, ciao… con ‘ste loro vocine per bene. E sempre la polvere s’assiepa sui loro visi. Le mosche già sguazzano nei loro teschi e i ragni hanno tessuto le loro appiccicose tele. Poi anche i vermi sbucano da sotto le assi del pavimento e s’avvinghiano ai loro corpi e li fanno a pezzi, li digeriscono e li vomitano. Intanto quei tre, però, ancora sgranocchiano e si lamentano dei loro trugli, in una diatriba attorno ad un bel tubo di nulla.-
- Ehi Rax! Smettila di rovellarmi il cardine col tuo ronzo! Tieni il planetario rinsecchito, per me sei un allucinato del menga!-
- E tu sei un bamba bello e buono... A dir il vero sei uno sporcaccioncello niente male…-
- Finiamola lì, eh! Adesso me ne vado sul serio, io, ne ho le scatole piene forte. È già l'una e un quarto e a casa c’è chi mi aspetta. A stasera.-
- Ma sì, vai che è meglio così. Me ne vado anch’io, m’han stufato le solite biffe. Passami a prendere in tipografia: ho qualcosa di interessante da farti vedere...-
- Sarà mica quello che penso io?-
- Se vieni lo vedrai, bello mio. Su va’ che passa il tuo pullman.-
- Non mi segui tu o non riesci a starmi dietro?- s’invola intanto all’inseguimento del mastodonte giallognolo che non accenna a rallentare.
- Prendo il prossimo, c’ho mica fretta, io!-
Quell’altro grida qualcosa all’autista che addomestica il suo mezzo interamente vetrato. Lo smilzo a piedi, prima di salire, scuote velocemente la mano in direzione di Rax; è qualcosa di simile ad un saluto. Rax non si scompone, cerca d’evitare i gesti inutili.
"Non ho nessuna intenzione di tornarmene a casa. Tanto è un’altra che lavora anche il sabato, Rossana, quindi non sono atteso. Adesso che se n’è andato, l’idiota, - c’ho perso la giovinezza con ‘sto sgherro – mi posso divertire. Non devo mica sottovalutare i guai che quello mi può procurare, ci penserò più tardi, però."
Rax si avvicina di più al cancelletto e nota una cuccia con tettoia sul lato sinistro della villetta.
"Avevo visto giusto. C’è uno stupido cane che sonnecchia. Ed è anche un imbecille, il cagnetto pidocchioso: non ha abbaiato a due estranei fermi davanti alle inferiate del suo territorio."
Rax si muove lesto, ancora più appresso al cancelletto, ma questa volta scorre lungo il perimetro del giardino, volta l’angolo trovandosi accosto alla cuccia del cane. Rax sta accovacciato in una vietta laterale tanto stretta che due persone affiancate stenterebbero a passare. Alle sue spalle c’è un muretto alto almeno un metro e mezzo che segue i contorni d’un altro giardino. Lì acquattato non può essere veduto né dalla strada, né da altre vie attigue, né dalla villetta contigua. È visibile solamente dalla porzione di giardino che ha dirimpetto, dove c’è la cuccia.
- Ringo, ehi Ringo, mi senti? Vieni qua, pirletto, che ho qualcosa da farti ingoiare.-
Sussurra ancora qualche frase del genere, poi emette un fischio debole ed un cagnetto bastardo esce dall’ombra della tettoia, scodinzolando. Con la lingua di fuori saltella verso l’uomo. Questi protende le mani verso il cane. Appena l’animale si fa vicino a sufficienza, Rax l’afferra con uno scatto folgorante che il cane non fa tempo nemmeno a sospettare. Le sue mani costringono violentemente il collo del cane e lo stritolano, tale è la possa della presa. La misera creatura non può emettere neanche un guaito. La lingua fuoriesce in tutta la sua lunghezza, gli occhi strabuzzano, il collo fa crack. È morto, le membra lasse ricadono lungo il corpicino, come il collo dei girasoli si piega alla fine del suo corso. Rax è sudato un poco sulla fronte. Le mani si rilassano. Tutto tace: le api ronzano, il sole osserva muto. Rax con uno slancio getta il cadavere di peli contro la cuccia e se va via con calma.
"Ogni azione comporta un rischio, ne sono ben consapevole. La difficoltà sta nel cogliere il fulcro di quest’equilibrio fuggevole, onde giungere sullo spartiacque, né prima, né dopo. Solo in bilico si ottiene la visione dell’intero, si può giudicare l’azione e soppesarne il rischio. Epperò nel momento dell’azione non possiamo sapere se ci troviamo realmente sullo spartiacque o più in giù; è il principio di indeterminazione". Rax si alza e decide di andare a farsi un giro in centro perché la giornata è invitante.
"Mi disgusta la gente, ma il bello è proprio qui: il diletto d’essere disgustato. Se la gente non mi suscitasse ribrezzo, allora non la osserverei, non la studierei, non la seguirei. Solo ciò che disgusta pienamente e fa accapponare la pelle, vale la pena d’essere amato, mica il resto che puzza sempre di familiare. Ammiro l’orrido e il delittuoso, amo l’anfratto in cui si dibatte il sorcio, la palude delle zanzare malariche, il muschio verde nei tubi delle cloache, la libellula nella rete del ragno, la mantide omicida, il corvo, nero come un corvo, il terrore della mosca in un pugno chiuso, il marcio delle cantine, amo dunque l’umanità nel suo mondo. Non sono per nulla pessimista, io, il mio è sintomo d’un ottimismo sfrenato, senza ritegno, dunque fallito."
Rax abita in una palazzina grigia come il cielo della Bassa, striata di marrone. Ci sono alcuni piani, ma egli non sa con certezza a che piano abita. Esce dall’atrio grigio a vetri, finendo nel cortile, grigio come il mare quando è grigio, e sfiora il cancelletto. Tlack, si apre. Muove qualche passo sul marciapiede sottile e sputa a terra con fastidio e ripugnanza.
"Che nausea l’estate! ‘Sti colori accesi, ‘sti insetti gialli e verdi che infestano l’aria con i loro ronzii! Ma si sopportano a cuor leggero. Invece troppo ampio è il Sole! Troppo in alto se ne sta sulla mia testa! Ricordo ancora quando lo scheletro smilzo di quella nave di marinai l’aveva sbarrato. Ricordo l’equipaggio, la morte e la vita che parevano far l’amore tanto erano amplesse. Ci guardavano e ci uccisero alla fine, le sporcaccione. Soltanto uno rimase vivo, iellato fino all’ultimo. Era l’antico marinaio che bighellonò in lungo e in largo per il mondo a scocciare tutti quanti, e poi ti tira fuori come uccise l’albatro, come profanò la natura e ne fu castigato, come fu salvato dalla stessa benevola e di come tutti lo prendevano per una larva umana.
Nubi… ce l’ha fa mica a ripararmi la testa dalla cocente vergogna, ‘sta nuvolaglia svogliata!"
Rax si trova in Largo Piemonte, così da poter tagliare verso Via Camoletti in direzione Est, ossia verso il centro, senza esitazione. Sono le quattro di pomeriggio e per le strade c’è silenzio, qualche bicicletta, qualche motorino, poche auto. Rax conosce bene la strada, giacché guarda i suoi piedi e non la via. Osserva le scarpette blu scomparire e ricomparire ritmicamente in modo tanto dolce da indurlo a proseguire, benché una stringa si sia slacciata.
"Sono i mie serpentelli fedeli che mi seguono, queste stringhe porche. Erano bianchi una volta, i serpentelli, ora ingrigiscono come dei vecchi martini: non fanno che mimetizzarsi. Eccolo, bel topolino, attraversa la strada, è grasso come neanche un verro. Spero si ingozzi di esche avvelenate. Ormai carcassa, lo mangerà la biscia che l’acchiappa un qualche uccellaccio. Sgagazzerà lontano, ‘sto furbo, e i suoi stronzini saranno piscina per vermi e batteri, broda prediletta delle colombe e delle quaglie. Ci sarà da ridere se uno di quei tonti col fucile l’ammazza, la quaglia, e se la sgranocchia. C’è sempre la possibilità che si becchi una cacarella di quelle toste: la speranza è proprio l’ultima a morire…"
Rax conosce già il suo destino. Cammina pensando e pensa camminando; intanto respira, il cuore gli tumultua nel petto, gli occhi scrutano, i padiglioni vibrano, le nari s’inarcano, il cervello rielabora. Tutto per niente.
"Per niente è tutto questo. Se non che, io alimento l’entropia universale, son utile forte. Ci sarebbe da entusiasmarsi se l’universo fosse stato generato dal Grande Schioppo, unicamente, e tendesse ad espandersi, senza darsi fastidi se le stelle si perdessero nell’infinità del nulla. Mai più si rivedranno, né si toccheranno, le stelle gelose. C’è mica di che star tranquilli, stiamo sprecando la nostra unica possibilità in un mare di robette vanesie. Sarebbe ancora più dirompente la nostra sconfitta, vale a dire più esilarante, nel caso in cui le uniche forme viventi fossero i terrestri, a capo dei quali crapulano gli umani. Tutta ‘sta fatica inane, da perdaballe, ‘sta sofferenza gratuita, da gesùcristoincroce, sono uno spreco d’energia, ma tant’è che gli unici a lagnarsi son quelli che fanno il casino. Invece c’è da dispiacersi per le stelle che mai più si scorgeranno, in perenne fuga, così che un altro io poveraccio, più giovane di me di miliardi d’anni, da un pianeta qualsiasi guarderebbe il cielo notturno e troverebbe solo il Buio; si sta freschi a vedere il buio del nulla. Vien da pensare che all’infuori del nostro sasso e del nostro faretto non c’è niente di niente. S’avrebbe meno crucci."
Rax sta passeggiando ripiegato su se stesso, contratto nei suoi pensieri, non guarda dove mette i piedi, non nota l’asfalto che gli scorre sotto, giacché non ha occhi che per i suoi assilli.
"’Sta terra che mi sfugge via sotto i piedi, mi rifornisce per niente d’una risposta, s‘affida al caso, lei, ‘sta palla. Le piace solo fare quello che ha sempre fatto, l’importante è girare…"
Viale Roma non patisce molto traffico in questo periodo. L’estate porta con sé il caldo, la luce, la bicicletta. E chi è furbo ne sa approfittare. Rax percorre il viale…
"Dovrebbero avere un po’ di dignità, ‘sti novaresi spilorci, e ripiantare gli alberelli che Viale Roma mostrava mezzo secolo fa. Oppure dovrebbero chiamarlo Corso Roma. Fa in fretta l’umanità, con la testa piena di cazzate, a scordarsi che i «viali» sono costeggiati da alberi. «Viale» è mica lo stesso di «corso», così come una pianta non vale un’altra."
… e non si avvede degli uccelli che cinguettano vitali, né delle mosche nere e pelose, né dei ratti che sempre meno timidi affacciano i musi dai tombini. Rax non si avvede che intorno il mondo vive. Pone la mano destra sul braccio sinistro e tira su una manica che non esiste. Guarda l’orologio, le lancette, il tempo.
"Dio immiserito! Le quattro e mezza! Ci sto impiegando un mucchio di tempo… il tempo mica si può ammucchiarlo! Che è tardi, me ne infischio, non c’è niente che mi punge il culo. Non corro di certo in lungo e in largo come un forsennato che cerca di rastrellare oro e merda tutto insieme nel cumulo, a più non posso; né si appiccica mica sulle mie spalle il vessillo nero della noia angosciosa; non corro neanche se mi tirano per il naso…"
E’ arrivato alla Rotonda.
"Ecco il colosseo di Novara. Di fianco è pieno di somari che vanno sottoterra nelle fogne per fare fitness e si ingozzano di wellness, per paura che lo Zio se li porti via troppo presto, prima che il loro ammasso di sterco sia alto alto. Mi fanno per nulla compassione, me ne frega niente, a me delle loro vite fumose: i topi sono voraci, non disdegnano, son mica schifiltosi come me che sono un pirla da niente."
Si ferma davanti ad un semaforo rosso. L’omino rosso composto, fermo lo scruta.
"Che diamine vuole quel bifolco? Adesso passo!"
Rax attraversa perché i semafori luccicano di tre colori, uno alla volta, senz’altro. Le auto brontolano, alcuni freni fischiano, ma egli non se ne avvede e fissa la sagoma rossa con aria di sfida.
"Che vi gridate! Che fretta avete d’andare! Dove vi scaraventate, sacchi d’immondizia?"
Il suo volto è rivolto all’altra sponda, mentre il traffico non eccessivo defluisce ancora una volta regolare. Rax infila le mani nelle tasche dei bermuda neri e le caccia in fondo fino a scomparire. Passa davanti all’istituto musicale Brera e un bagliore di musica raggiunge il suo timpano.
"Questo è il Ludwig van, noterebbe un mio «bigio» amico, uno di quelli tosti, un malcico di quelli seri."
E in effetti è Beethoven con l’Eroica.
"Era per quel nano di Napoleone Bonaparte, il liberatore, doveva essere in suo onore, ma il Ludwig van disilluso si decise di non dedicargliela, perché alla fin fine ‘sto Còrso s’era rivelato un depravato minchiuto come gli altri, che stan dietro al mangia mangia generale. Si son risolti in una degenerazione assoluta l’Illuminismo prima, il Romanticismo poi. Il fallimento è un po’ il coronamento d’ogni epoca storica, per questo la storia non mi riesce di capire se abbia un senso dell’umorismo enorme o se le manchi del tutto!"
Rax cammina lungo il viale dell’ospedale di fianco alle panchine, sul sentiero in mattonelle opache. Guarda in su verso gli alberi fronzuti.
"C’è il tanfo della morte qui attorno. Oltre quella sbarra, la sbarra dell’ospedale, la linea che divide i sani dai malati, c’è la ragazza madre che nasconde il ghigno sotto un cappuccio di raso."
Poggia ora i piedi in Piazza Puccini, sede di manifestazioni estive. Rax ne ha per tutti…
"Luogo putrido ’sto qua, vi fa capolino una fama subdola! Di lì a sinistra stanno le mummie incartapecorite che gridano ancora «va’ pensiero sull’ali d’orate». Sui loggioni del teatro Coccia si mischiano le scoregge mefitiche dei babbioni impomatati, nel gaudio di una mala bolgia. Qui a destra invece si piazzano quei saltimbanchi ambulanti che gridano nei microfoni, che le scoregge, invece, loro se le incendiano per far vedere che son padroni della loro vita. Là dietro è la colonna infame."
Si siede su una panchina dall’aspetto nuovo, moderno, affusolato, senza macchie.
"’Ste panchine nuove son già decrepite, obsolete. E questo cespuglio alle mie spalle, è moribondo, asfissiato dai peti di tutti i bavosi che si purgano le chiappe su ‘ste assi… Ricordo mica più perché sono arrivato fin qui… Oh già, la gente… disgustosa. Vediamo un poco."
Rax alza lo sguardo perché sente della musica provenire da Via Rosselli, sotto i portici.
"Che ci fa quell’acefalo con la macchina posteggiata lì? Da dove diamine è sbucato, in centro puoi mica passare? Non c’è nessuno che gli tira in testa un mattone e gli fracassa quella sua radio stonata!"
Rax riporta la linea dell’orizzonte sull’entrata posteriore del teatro, poi lo sguardo vaga un po’ qui, un po’ là. Passa, in fondo, lungo la via una ragazza con un cane.
"Lurida pulce pisciatutto. Mi dai più nausea tu o chi ti tiene al guinzaglio?"
Fanno quindi la loro comparsa alcuni ragazzini in gruppo. Sono tutti impettiti mentre ridono e si divertono. Due di loro prendono a calci una lattina ed è improvvisata una partita di calcio. Le ragazzine del gruppo subito si schierano a fare il tifo mentre i giocatori si impegnano, giacché in palio c’è il loro onore. Non c’è campo, non c’è porta, ma quelli si prodigano comunque.
"Ridete e sghignazzate mocciosi fin che siete in tempo, fino a che avete denti sani e belli da mostrare al mondo. Verrà pure per voi la morte e avrà i vostri occhi, la battona scheletrica, e i vostri denti. La Ragazza dai capelli bianchi non conosce la pietà, i suoi occhi sono profondi come l’universo, i suoi denti aguzzi come spiedi."
I ragazzini non fanno in tempo a nascondersi dietro al palazzo ottocentesco sulla destra, che compare a sinistra un giovane con i capelli lunghissimi, accanto ad una ragazza minuta dalla capigliatura rasata quasi a fior di pelle. Seguono tre ragazzi ben vestiti con altrettante ragazze altezzose.
"Che puzzo!"
Rax si alza dalla panchina su cui lancia uno sguardo deplorante; poi ammicca con gli occhi al Sole e imbocca Via Rosselli.
Si ferma di colpo: si direbbe che stia pensando.
"Entschuldigung Sie, wie spät ist es?… Come scusi?… Weißt du die Uhr? Oder bist du eine Hure?… Che vuoi crucco mangiapatate?… Ma vafangulo! E dimmi st’ora!…Tie’!… Gott sei Dank!! Me lo son mica dimenticato il tedesco…"
Rax sta ora immobile mentre scruta la sua ombra lunga, l’ombra che guarda l’oriente.
"Der Ritter kommt und bringt den Tod. Mi sento bene nei panni luridi del cavaliere, der Ritter, che viene e porta la morte; non son convinto punto di ‘sta mia presunzione, ma in qualcosa è bene che la vita si definisca."
Il sole giallo, inguardabile, assiste silente ai pensieri di Rax, mentre questi si fa schermo con una mano sugli occhi proprio per contemplare quello.
"Il Sole si spenga pure ora, non mi importerebbe. Il cielo si tinga di rosso, i mari ricoprano tutta la terra, non me ne curerei: bisogna fottersene dei sensi di colpa. Mi si prometta, però, la vita eterna, dio boia, o l’eternità eterea, o si osi impormela, allora sì che l’umanità, o chi per lei, proverebbe il mio grido di rivolta. L’unica lusinga è che finirò. Le certezze vanno affilate, di giorno in giorno, finché sono aguzze e dolorose, poi si devono affinare perché dobbiamo inghiottirle, affamati come siamo, e saziarci di quel po’ che siamo riusciti a coltivare, persino della certezza che mancano certezze."
Rax riprende il suo incedere lento verso Piazza delle Erbe ove, appena giuntovi, rimira la mattonella che segna il centro della città, osserva il chiosco dell’edicola, la libreria Rizzoli con il suo arancione vivo, intravede il cinema chiuso e prosegue. Incrocia Corso Italia luminoso e trasparente di tutte le sue vetrine. Sputa alla vista della sede del CCD, sputa alla vista di un piccione, sputa alla vista di una bettola con le lanterne rosse, sputa alla vista di scarpe costose, sorride quando un topetto furbo sgattaiola via veloce, perpendicolarmente al corso, e s’occulta in un tombino.
Appena Rax si stufa del mondo, ritorna in fretta a casa sua, in Largo Piemonte. Nell’alcova che l’aspetta c’è Rossana, sua moglie.
"Eccomi un’altra volta a casa, inghiottito dalle mura domestiche, costretto ad ascoltare quel disgraziato con la chitarra che vomita note sulla mia testa. Oh, ma un giorno o l’altro vado su e quella chitarra gliela spacco sulla crapa pelata! Eccomi qua dunque, nella mia domus, ma già queste porte mi vengono a noia, voglio ancora una volta sentire l’odore del vento che ti pizzica i peli del naso, il suo aulire sopra ogni asinata umana, assaporare il caldo di luglio cha appiccica tutto, intendere i topi e i loro rantoli. Un tempo potevo tutto questo e lo facevo con Rossana. Ora la quaglietta bella e rotonda se ne sta di là! Ha da fare, la capisco, ognuno ha le proprie croci, lo sbacchio d’una vita. C’è chi l’ha enorme sulle proprie spalle, c’è chi l’ha così piccola da riuscire ad appendersela al collo, c’è chi l’ha gigantesca ma ha comprato un rimorchio e un trattore, c’è chi non l’ha perché se ne sbatte ed ogni volta la scaraventa a terra, la croce."
- Ciao Rossa. Come va?-
- Hm…-
- Loquace… È pronta la cena?-
- Hm…, sono solo le sei, non è ora di mangiare.-
"E già, come sempre ha ragione Roxana. Forse sta al mondo proprio per questo, per aver ragione di me. A vederla ti vien da riflettere se ogni balordo non abbia un suo compitino da adempiere, nei confronti di qualche altro inetto…"
Un ragnetto capitombola sulla spalla destra di Rax, il quale se ne avvede e osserva l’ottopiedi danzare tra le maglie strette della T-shirt nera. Poi con uno sbuffo lo scaccia lontano nell’aria.
"…no no, non è giusto rincoglionirmi con ‘ste balle pseudoidealistiche, balle per pervertiti, balle per deboli ruminanti… eufemismi solo eufemismi. Non esistono i compiti degli uomini, hanno nessun motivo di sbrodolare nell’Essere se non in funzione della loro stessa esistenza. A scuola mi chiedevo, io, che senso avesse «esaudire» i compiti, sempre un desiderio altrui, che mi parevano proprio inani e che ritenevo spogli d’ogni interesse, insomma delle bufale colossali. Poi ho ammonticchiato negli anni compiti su compiti, obblighi su obblighi, affari su affari e mi sono detto che erano serviti, certo, a qualcosa, a me, che mi avevano migliorato schiudendomi nuovi orizzonti… Potevo mica ammettere di aver bruciato l’esistenza in compiti insensati, d’aver vissuto di minchiate. Per ciò ho concluso che i compiti dell’uomo non esistono mica; chi ci crede, ai compiti, può solo essere ottimista e l’ottimismo non c’entra niente con la vita. L’iguana vuole per niente diventare una borsetta con la puzza sotto il naso, sarà mica ‘sto qua il suo compito?, né il compito d’un pirletto quello di doverla infilzare e spellare, d’un altro quello di farci una borsetta, di venderla, di convincere un tale fetuso a comprarla, e ‘sto balengo poi deve pure succhiarsi via i soldi dello sgobbo per comprare la ghirba d’iguana? Senza contare che c’è il deficiente che la porta in giro per il mondo, la sua borsetta, e c’è quell’altro che la guarda e la vuole proprio perché è troppo carina, e giù allora a cavar fuori le iguane dalle loro squame, che a perderci davvero son sempre loro!"
Ora Rax è seduto in poltrona che fissa immagini occulte al resto dell’umanità. Erge il cipiglio in alto e mostra la lingua rossa e carnosa. Sa che nessuno, nemmeno Rossana, lo sta guardando.
La mattina dopo si sveglia prima del solito, giacché nella mente sente alcuni pensieri scuoterlo. Si veste velocemente. Fulmina con lo sguardo la sveglia sul comodino: sono le sette e mezza. Bacia sulla guancia Rossana che sta riversa sul letto e la saluta.
- Vado in tipografia. Ciao.-
Rax esce di casa un po’ trafelato. Ridacchia.
"Se almeno il mondo fosse tutto in bianco e nero, potrei ben vivere seguendo le decisioni senza imbrogli: bianco o nero. Il mondo, però, ‘sto sconcio, ha mille colori, il nostro occhio ne capta alcuni, un’inezia rispetto al possibile, un’infinità rispetto alle mie possibilità. Se solo potessi stringere in mano uno dei colori, se potessi anche vederlo, oltre a guardarlo come un beota, noterei, allora, il bianco e il nero che c’è in tutti i colori. Invece ‘sto mondo scollacciato sulla mia mano se ne fugge via tra le mie pieghe, come la sabbia tra le dita dei bambini. I vecchi si danno mica più la briga di acchiapparla…"
È in strada e si ritrova, mosso dalla mente claudicante, davanti ad una vetrina: è una lavanderia. Osserva un oblò al cui interno i panni vengono centrifugati e i colori sfumano l’uno nell’altro fino a sparire e a formare un’unica miscela che, in un crogiuolo, si fonde e trasfonde in qualcosa d’altro.
"Ho in bocca il sapore delle cornette con un sugo di pomodoro. Che senso ha, son proprio alla frutta dei pensieri? Collego le cornette a Rossana, quanto tempo che ci trastulliamo insieme! Neanche per lei ho più molta importanza, sarà che non la eccito... Eppure con la sua essenza, con la sua esistenza, mi trattiene dall’estinzione, dall’annullamento, la bambolona che è una combattente. Quante lettere di commiato ho già preparato, son lì per lì a tirar le cuoia e le scribacchio ‘ste lettere, con foga pure, mi ci prendo, ma rimango come un surgelato. Le lettere di per sé sembrano un po’ troppo artificiose per un suicidio, nevvero? Suicidati e basta!, insomma «vai fuori dalle palle ma non rompere…». Non io, però, che son meglio degli altri; devo dare esplicazione di un atto che è l’estrema protesta contro ‘sto mondo fetente e una vita immonda. Sopporterei mica che i sopravvissuti non conoscessero le ragioni del mio gesto. Accadde, a dir il vero, una situazione siffatta. Mi accorgevo di perdere la mia misera battaglia con la vita e con le rappresentazioni di volontà altrui. Mi stavo piegando al loro peso e lentamente mi ingobbivo. Mica mi potevo rassegnare, tradimento! D’altro canto, chi si sarebbe sbattuto a testimoniare il tradimento, lasciamo zero testimoni, c’ero solo io. Eppure la rassegnazione è l’unica lezione dell’esistenza, ma significa anche perdere e dar godimento agli egoisti creatori della vita. Ci sputo sopra, a quei verri che confondono il didietro della scrofa con un tubo impuzzolentito! Qualche mente avrebbe potuto obbiettare: tuttavia il suicidio è il piegamento massimo, con l’angolo più ampio! Magari è proprio così, ma il suicidio mi avrebbe evitato almeno di essere testimone della mia flessione. In somma, la mia letterina ultima era già pronta, lì, firmata e imbustata, quando un profumo sublime violentò le mie narici, vale a dire mi eccitò. Era l’odore incantatore di Rossana, la quale sfrecciò in corridoio, del tutto ignara. Mi avrebbero dovuto uccidere, perché da solo non avrei mai osato, finché quel culo generoso mi ballonzolava davanti agli occhi.
Oggi, dunque, eccomi qui, riflesso d’un riflesso, laggiù in quella vetrina. Macino intimamente un vuoto che inghiotte l’universo, il vuoto dei citrulli, che minaccia una sortita per aggredire tutta la pienezza della solidità materiale, come in una vomitata. Opprimere o essere oppresso."
Rax si volta.
"Quel che io so tutti possono sapere; ma il mio cuore, quello è solo mio! Era mica scemo ‘sto Goethe."
Muove qualche passo pensieroso intanto che le mani si rifugiano in tasca.
"Catullo era un disgraziato, e certo, era un segaiolo maturo: odiava e amava senza sapere il perché, e se glielo avessero chiesto rispondeva che gli accadeva e basta, et excrucior impensius, s’ostinava con ‘sta litania, che si dannava per ‘sto suo casino di donne (e uomini), mi convince mica. È che si è indecisi, dannatamente indecisi, ogni manfrina è per via d’un’indecisione. Siamo così indecisi che sprechiamo una vita a scegliere cosa essere."
Rax raggiunge una fermata dell’autobus, su cui transita la linea sei. Alza gli occhi ancora una volta sul sole e s’infuoca le pupille di quel chiarore inestinguibile. Per qualche secondo rimane completamente abbagliato, così che il mondo si tramuta in macchie verdi, rosse e gialle, danzanti in preda all’agonia. Una macchia gialla più grande e netta delle altre avanza intrepida fino a fermarsi. È l’autobus sul quale Rax sale in estasi. Timbra, si siede, sorride del suo infantile godimento. Il pullman volteggia per le vie fino al capolinea, cioè Torrion Quartara, ove Rax scende guardando il suolo.
"Nella vita si scende e si sale anche quando si rimane immobili, e viceversa, ovviamente."
Sono all’incirca le 10,00.
Rax svolta per le viuzze così disinvoltamente da parere il vero abitante della casa che ora raggiunge. L’abitazione è quella in cui vive Veronica con madre e padre e cagnetto (il fu).
"Bel giardino, ‘sto qua, il vecchio c’ha la passione del prato all’inglese, il pollice verde!"
Una finestra è spalancata permettendo a Rax di appostarsi al fin di vedere senza essere visto. Gli riesce bene, giacché si piazza dietro all’inferriata del cancelletto coperta da un arbusto folto. Ivi aspetta paziente.
"Tutte moine da squilibrati, ‘sta santa pazienza! La pazienza e la calma son mica le virtù dei forti, soltanto dei pazienti e dei calmi. Il mio sospetto è che i pazienti e i calmi siano anche dei deboli, dei vigliacchi. Difatti sono anch’io un debole, son un pifferaio da niente, altrimenti non starei qua a menarla tanto per le lunghe, ad inseguire le mie ossessioni."
Un cigolio ed un’altra finestra si spalanca vomitando il volto pallido della madre. Un volto stanco, dalla pelle triste, le cui rughe seguono linee magnifiche suicidantesi di fianco agli occhi, ai lati della bocca, sotto il collo. Veronica intanto scende dall’autobus successivo a quello di Rax. Egli la vede: l’immagine snella di lei corruga l’aria calda in lontananza. S’acquatta per non essere scorto. Ella ha già in mano le chiavi del cancelletto, mentre i suoi passi fanno scricchiolare la ghiaia.
"Ossa che si frantumano, ossa che ridono."
Veronica è ormai di là dalla recinzione.
- Ciao mamma.-
- Ciao Veronica, è andata bene oggi?-
- Benone, forse finalmente riuscirò ad ottenere qualcosa dal mio lavoro!-
"Immagino come, gli avrai levigato il bigolo al padrone, eh scrofetta da quattro soldi!"
Rax sguscia fuori veloce, scavalca il cancelletto e infila un piede tra la porta di casa in procinto di chiudersi e lo stipite. L’uscio, interdetto, si spalanca per reazione e il viso tenero, stupito di Veronica, spunta fuori dalla superficie immaginaria contenuta dallo stipite. Riesce a fissare l’uomo per un solo istante. Rax è già in casa. Nessuno ha visto perché non c’è nessuno che possa vedere. La madre tenta di urlare, ma non può, giacché un caldo mucrone è già fitto nella sua epiglottide. Sangue. Una mano di Rax tiene muta Veronica, la quale sgrana gli occhi e si dibatte. Si chiede cosa stia succedendo, ma l’adrenalina la istiga solamente a fuggire. Rax in cuor suo risponde.
"Veronica, ti scaldare mica: ti ammazzo e la finiamo con ‘sta menata. Non sai che la vita implora le sue vittime sacrificali!"
Tutto sta avvenendo troppo velocemente perché le sinapsi di Veronica abbiano il tempo di presentire la morte imminente. Ma non importa.
"È tutto un brivido languido che scivola via. Senza tempo, siamo esseri senza tempo."
La mente di Rax ora è un vuoto, la sua vita una freccia, il suo fine è non avere fine alcuno, la sua tattica è la non-tattica. Riesce a trattenere la calma mentre Veronica punta su di lui gli occhi acquosi, imploranti pietà, perdono per una colpa che non ha commesso.
Rax brandisce con la destra un pungolo lungo ed affusolato, con la sinistra il volto cinereo di Veronica. Le bacia la fronte e dalla bocca schiusa di lei compare, come se fosse una lingua metallica, la lama calda e rossa. Veronica non può che stramazzare al suolo, cosa che si confà ai cadaveri. Una vita non è più, una bella gioventù è stroncata. Rax appare triste quando esce da quella casa, chiudendosi la porta alle spalle.
"Mondo cane! Dove se ne sta quella carogna della Giustizia?"